21/01/2012
Arturo Brachetti a Torino, al Sermig, mentre parla all'Arsenale della pace durante una lezione dell'Università del dialogo. Foto: Max Ferrero/Sync.
Mettete insieme un grande artista e un "esercito" di ragazzi della pace. E' accaduto
a Torino. Brachetti e i giovani del Sermig, lui pronto per un tour mondiale che presto potrebbe portarlo a New York, loro pronti per incontrare il Santo Padre insieme ad altri 10.000 coetanei.
Ed ecco il risultato. «"Non è importante che tu abbia la vocazione religiosa. L'importante è che tu abbia una vocazione. E se la tua è quella di far sognare e far sorridere, allora seguila". Così don Silvio Mantelli, un sacerdote salesiano con la passione per le 'magie', mi ha cambiato la vita tra i banchi del seminario».
Parla Arturo Brachetti, l'uomo dai mille volti, colui che ha riportato in auge l'arte del trasformismo, praticamente scomparsa nel 1936 con la morte di Leopoldo Fregoli. La sua vita, un po' come i suoi spettacoli, sembra un'infinita carrellata di esperienze. Eppure, fino a pochi giorni fa, forse a Brachetti non era mai successo di "salire in cattedra". Lui, antiretorico e antiaccademico per carattere, non si considera adatto a tenere lezioni pubbliche.
Arturo Brachetti. Foto: Corbis.
Ma in questo caso l'invito proveniva da un "ateneo" decisamente particolare:
l'Università del Dialogo del Sermig (Servizio Missionario Giovanile) di
Torino. E Brachetti ha voluto accettare la sfida. L'idea è nata dalla
mente vulcanica di Ernesto Olivero, fondatore del Sermig. Il
significato dell'Università del Dialogo sta nel suo stesso nome: si
tratta di uno spazio di confronto nel quale i giovani possono parlare a
tu per tu con alcuni personaggi capaci di fare o cambiare la storia. In
tutti gli ambiti: dal 2004 a oggi, nei locali dell'Arsenale della Pace
(dove il Sermig ha sede) sono passati politici, intellettuali, vescovi,
scrittori, giornalisti, economisti e artisti con percorsi di vita molto
diversi, ma tutti disponibili a confrontarsi sui grandi temi della pace,
del rispetto e della cooperazione per il bene comune.
Il calendario 2011-2012 ha un titolo ambizioso: "Giovani e adulti
riparatori di brecce". Questo il quadro all'interno del quale Arturo
Brachetti è stato chiamato a intervenire. Un quadro inedito per
l'artista, che prima di tuffarsi nell'incontro vero e proprio ha voluto
precisare: «In teatro c'è un copione, una specie di rete che ci
protegge: siamo sempre qualcun altro. Qui invece dovrò essere me stesso:
la parte più difficile da interpretare».
I giovani, calamitati dalla sua personalità poliedrica, lo hanno
ascoltato e interrogato. «Per noi ragazzi di oggi è ancora possibile
coltivare e far crescere un sogno?», gli hanno chiesto. Lui ha risposto
partendo da lontano: ha rievocato l'adolescenza trascorsa in seminario,
dove era stato mandato dal padre. Sullo sfondo un Piemonte ancora in gran parte contadino, dove la presenza di don Bosco era fortissima
e per molte famiglie "un figlio in seminario" voleva dire "un posto in
paradiso". Ha raccontato la "fuga" all'estero per seguire la sua grande
passione e i duri anni di gavetta «quando l'unico stipendio è imparare
sempre qualcosa di nuovo» fino ai primi successi.
Oggi i suoi show, campioni di incassi in tutto il mondo, gli fanno
incontrare gli sguardi di migliaia di spettatori. «In quegli occhi trovo
il senso del mio lavoro – ha spiegato – Sono occhi innocenti, ancora
pronti a stupirsi per le piccole meraviglie che a me, dopo anni di
mestiere, non fanno più nessun effetto. Io vivo della loro meraviglia e proprio grazie al pubblico riesco a recuperare una specie di innocenza.
Una volta, al termine di uno spettacolo in cui simulavo il volo, un
bambino mi ha chiesto "Ma ora, per andare a casa, prendi il taxi oppure
voli?". Quella frase mi ha fatto stare bene per una settimana». E ha
subito aggiunto, ridendo: «Del resto io stesso sono un bambino di
cinquantaquattro anni: sono un caso conclamato di sindrome di Peter Pan.
Ma che ci volete fare? in questo modo riesco ancora ad avere delle
idee».
Giovane in mezzo ai giovani, Brachetti ha regalato ai presenti momenti di ironia ma anche spazi di grande serietà: «Esistono molti modi per dar vita a un sogno.
Ci sono le locomotive, cioè le persone che coinvolgono chi hanno
accanto nei loro progetti, magari con un po' di follia, e ci sono i
vagoni, quelli che si trovano meglio a seguire un sogno già tracciato da
altri. Tutti sono indispensabili. L'importante è mettersi in viaggio. Invece oggi vedo tanti ragazzi che stanno fermi.
Si considerano sconfitti ancor prima di partire: magari hanno ideali
grandi, però non sono disposti a rischiare. Penso che il modo migliore
per aiutare i giovani sia metterli un po' in difficoltà: dar loro delle
responsabilità e vedere come riescono ad affrontarle».
Poi, a sorpresa, un cambio di ruoli degno di un trasformista ha sparigliato le carte. «Ma
tu quali sogni hai?» ha chiesto Brachetti al padrone di casa, Ernesto
Olivero, trasformandosi da intervistato a intervistatore. E ha
ricevuto una risposta tutt'altro che prevedibile: «Vorrei allenare una
squadra di calcio. E vorrei anche gestire un aeroporto in cui i
passeggeri non debbano aspettare troppo per imbarcarsi». Attimo di
suspense. «Ma il mio primo sogno resta abbattere la fame del mondo». Un
sogno partito da lontano: «Per vent'anni siamo stati sotto una tenda.
Poi siamo riusciti ad avere un ex arsenale militare, dove oggi
accogliamo chi non sa dove passare la notte, i poveri e tutti quelli che
hanno bisogno di aiuto. Ora stiamo attraversando un momento durissimo –
ha proseguito Olivero – ma so che grazie al contributo di chi crede in
questo sogno ce la faremo».
E tanti sono i progetti in cantiere. Il prossimo 4 febbraio 10.000
giovani della pace, «che non sono il futuro ma il presente», si daranno
appuntamento a Roma per incontrare papa Benedetto XVI: «sarà un momento storico, destinato a segnare in modo indelebile le nostre vite», ha concluso Ernesto Olivero.
Arturo Brachetti a Torino, al Sermig, mentre parla all'Arsenale della pace durante una lezione dell'Università del dialogo. Foto: Max Ferrero/Sync.
Oggi i suoi show, campioni di incassi in tutto il mondo, gli fanno
incontrare gli sguardi di migliaia di spettatori. «In quegli occhi trovo
il senso del mio lavoro – ha spiegato – Sono occhi innocenti, ancora
pronti a stupirsi per le piccole meraviglie che a me, dopo anni di
mestiere, non fanno più nessun effetto. Io vivo della loro meraviglia e proprio grazie al pubblico riesco a recuperare una specie di innocenza.
Una volta, al termine di uno spettacolo in cui simulavo il volo, un
bambino mi ha chiesto "Ma ora, per andare a casa, prendi il taxi oppure
voli?". Quella frase mi ha fatto stare bene per una settimana». E ha
subito aggiunto, ridendo: «Del resto io stesso sono un bambino di
cinquantaquattro anni: sono un caso conclamato di sindrome di Peter Pan.
Ma che ci volete fare? in questo modo riesco ancora ad avere delle
idee».
Giovane in mezzo ai giovani, Brachetti ha regalato ai presenti momenti di ironia ma anche spazi di grande serietà: «Esistono molti modi per dar vita a un sogno.
Ci sono le locomotive, cioè le persone che coinvolgono chi hanno
accanto nei loro progetti, magari con un po' di follia, e ci sono i
vagoni, quelli che si trovano meglio a seguire un sogno già tracciato da
altri. Tutti sono indispensabili. L'importante è mettersi in viaggio. Invece oggi vedo tanti ragazzi che stanno fermi.
Si considerano sconfitti ancor prima di partire: magari hanno ideali
grandi, però non sono disposti a rischiare. Penso che il modo migliore
per aiutare i giovani sia metterli un po' in difficoltà: dar loro delle
responsabilità e vedere come riescono ad affrontarle».
Erneseto Olivero (a sinistra) e Arturo Brachetti a Torino, al Sermig, all'Arsenale della pace, durante una lezione dell'Università del dialogo. Foto: Max Ferrero/Sync.
Poi, a sorpresa, un cambio di ruoli degno di un trasformista ha sparigliato le carte. «Ma
tu quali sogni hai?» ha chiesto Brachetti al padrone di casa, Ernesto
Olivero, trasformandosi da intervistato a intervistatore. E ha
ricevuto una risposta tutt'altro che prevedibile: «Vorrei allenare una
squadra di calcio. E vorrei anche gestire un aeroporto in cui i
passeggeri non debbano aspettare troppo per imbarcarsi». Attimo di
suspense. «Ma il mio primo sogno resta abbattere la fame del mondo». Un
sogno partito da lontano: «Per vent'anni siamo stati sotto una tenda.
Poi siamo riusciti ad avere un ex arsenale militare, dove oggi
accogliamo chi non sa dove passare la notte, i poveri e tutti quelli che
hanno bisogno di aiuto. Ora stiamo attraversando un momento durissimo –
ha proseguito Olivero – ma so che grazie al contributo di chi crede in
questo sogno ce la faremo».
E tanti sono i progetti in cantiere. Il prossimo 4 febbraio 10.000
giovani della pace, «che non sono il futuro ma il presente», si daranno
appuntamento a Roma per incontrare papa Benedetto XVI: «sarà un momento storico, destinato a segnare in modo indelebile le nostre vite», ha concluso Ernesto Olivero.
Lorenzo Montanaro