11/08/2012
A 28 anni di distanza dal tragico incidente del 1984, non cessano malattie e danni genetici causati dalla fuoriuscita di gas tossici. (foto Corbis)
La televisione non ha mai smesso di trasmettere
le immagini da Londra. L’imponente
blackout che il 30 e il 31 luglio
ha paralizzato complessivamente
620 milioni di indiani, l’11 per cento della popolazione
mondiale, ha graziato il Madhya
Pradesh e la sua capitale, Bhopal.
La televisione
è accesa. Ma per lei non fa la differenza. Il
buio, infatti, è una condanna che, incolpevole,
sconta da quando è al mondo. Rukhsar,
23 anni, è cieca dalla nascita.
un’immagine d’archivio dello stabilimento dell’Union Carbide a Bhopal. Da lì fuoriuscì il gas letale (foto Corbis).
Colpa del tragico incidente avvenuto in
una fabbrica di pesticidi, gestita da una consociata
della multinazionale americana
Union Carbide. Nella notte tra il 2 e il 3 dicembre
1984, la fuoriusciuta di 40 tonnellate
di gas (isocianato di metile, dissero gli esperti)
avvelenò l’aria di Bhopal uccidendo un numero
ancor oggi imprecisato di uomini, donne
e bambini.
Fonti ufficiali ammisero che
nelle prime settimane dopo il disastro i decessi
furono 2.259, diventando 3.787 una volta
sommati i tragici esiti di molti calvari individuali.
Alcune agenzie governative sostennero
però che i morti furono 15 mila. Di sicuro
le esalazioni minarono la salute di 558 mila
persone, molte delle quali rimaste totalmente
invalide. Malformazioni e malattie hanno
segnato anche le generazioni successive.
Da sinistra: Shahzad, 54 anni, autista di tuk tuk, con - al centro - la figlia Rukhsar, 23, cieca dalla nascita, nella loro casa di Bhopal (foto Severino Marcato).
Come quella di Rukhsar. La ragazza sa benissimo
che un filo lega in qualche modo le Olimpiadi lontane a casa sua. L’Union Carbide,
infatti, è stata rilevata dal colosso Dow
Chemical, contestatissimo sponsor dei Giochi
di Londra 2012. Quest’ultima sostiene
che non deve rispondere del male fatto dalla
prima. Le vittime, i familiari e chi li assiste la
pensano in maniera opposta.
«Stiamo facendo di tutto per far sì che la
Dow Chemical si assuma le sue responsabilità
in campo civile e ambientale», ha dichiarato
Rachna Dhingra, portavoce di un’organizzazione
che si batte affinché i sopravvissuti e
i loro discendenti abbiano giustizia.
Le richieste
importanti sono due: la bonifica del luogo
(«quando piove il terreno rilascia mercurio,
molte delle falde acquifere sono inquinate
», denuncia la gente) e ulteriori indennizzi
destinati a chi sta male.
Per richiamare
l’attenzione su questa battaglia, il 26 luglio,
proprio alla vigilia dell’inaugurazione
dei Giochi di Londra, a Bhopal si sono svolte
Olimpiadi speciali che hanno avuto come
protagonisti i bambini nati con deformazioni
genetiche legate al disastro del 1984.
«L’incidente chimico è diventato parte della
mia esistenza anche se sono venuta al
mondo mesi e mesi dopo», racconta Rukhsar.
«Molti, come me, sono ciechi. Altri hanno
avuto in sorte differenti malformazioni. A
scuola, nessuna discriminazione, in classe
c’era sempre un discreto numero di disabili.
A Bhopal è come se fossimo costretti a convivere
con un demone gigantesco che nessuno
riesce a cacciare via».
«La notte tra il 2 e il 3 dicembre
1984 sta a noi indiani come l’11 settembre
2001 sta agli americani», interviene
Shahzad, 54 anni, papà di Rukhsar. «Vivo
guidando un tuk tuk (il più diffuso mezzo a
tre ruote dell’Asia, una sorta di Ape che fa anche
servizio pubblico, come un taxi, ndr).
Avevo finito il turno e me ne stavo alla stazione
degli autobus bevendo un the caldo con
alcuni amici poliziotti prima di tornare a casa.
D’un tratto, un fumo biancastro ci irritò
gli occhi. Iniziammo a lacrimare. D’istinto
ho cercato di proteggermi con la sciarpa».
«Niente», prosegue Shahzad. «Non riuscivo
a tenere gli occhi aperti tanto mi bruciavano.
Nessuno capiva cosa stesse accadendo. In
strada, le persone correvano impaurite e doloranti
in tutte le direzioni. Sopra di loro una
nube densa. Una scena apocalittica. Oltre
agli occhi, che sembravano ormai fuori dalle
orbite, il nostro respiro si faceva sempre più affannoso. Molti di noi hanno iniziato a vomitare.
Qualcuno urlò che c’era stato un incidente
alla fabbrica della Union Carbide. Io lavorai
tutta la notte portando all’ospedale di
Bhopal o fuori città il maggior numero di persone.
Di loro non ho più saputo nulla, non
so chi è morto e chi, invece, ce l’ha fatta. Io
crollai 3-4 giorni dopo. Non riuscivo a muovermi.
Temevo il peggio. Pian piano mi sono
ripreso, guido ancora i tuk tuk anche se
mi affatico quasi subito. La mia pena più
grande è Rukhsar, povera figlia mia».
una delle famiglie povere con figli disabili che abitano nelle baraccopoli sorte attorno all’ex Union Carbide (foto Severino Marcato).
Due quartieri oltre, in un’abitazione decisamente
più malconcia, due stanze prive di
arredamento, vivono in sette. Taslim, 41 anni,
vedova, stringe a sé le sei figlie e racconta
piangendo: «Mio marito s’è trascinato fino al
gennaio 2010, quando è morto. Leucemia. Lo
Stato mi passa 35 mila rupie all’anno (circa
511 euro, ndr). Avrei bisogno della stessa cifra,
ma al mese. Le cure, in primo luogo.
Iqra, 7 anni, ha un ritardo mentale ed è quasi
cieca; Tahseem, 16 anni, ha seri problemi
alla vista. Poi, il cibo. Spesso le ragazze vanno
a letto affamate. Infine, la scuola. Senza
la formazione rimarranno povere e sfruttate.
Ma come faccio a far sì che continuino a studiare?
Tiro avanti come posso.
Ho un negozietto.
Ma non ce la farei se non fossi aiutata
da organizzazioni umanitarie».
Dopo la tragedia sono sorti molti comitati,
enti e associazioni per curare le vittime. C’è,
ad esempio, la clinica Sambhavna, finanziata
tra gli altri dalla Fondazione Città della
gioia dello scrittore Dominique Lapierre (autore
dell’indimenticabile Mezzanotte e cinque
a Bhopal).
E c’è il Chingari Trust, fondato
da due vedove. Chingari in indiano significa
“fuoco”: l’impegno a favore di chi è stato
colpito continua. L’organizzazione promuove
e realizza attività di riabilitazione, terapie
integrate con interventi chirurgici, assistenza
ai nuclei familiari disagiati con persone disabili
a carico.
Il direttore, Thomas Tarun, spiega
che la maggior parte dei pazienti proviene
dalle baraccopoli nate intorno alla fabbrica
della morte. «Per i più piccoli è fondamentale
iniziare la riabilitazione il prima possibile
per allungare la loro aspettativa di vita». Con
Chingari collabora molto Cbm-Missioni cristiane
per i ciechi nel mondo (www.cbmitalia.org; telefono 02/72.09.36.70): è uno dei
118 progetti che sostiene in tutta l’India.
Alberto Chiara