13/02/2013
Dare l'anima: chi opera nel volontariato, lo sa, è decisivo. Decisivo per coloro che ne ricevono i benefici diretti. Ma anche per chi ne è attore. Protagonista di quelle che i boy-scout chiamano "buone azioni": un modo straordinario per arricchire soprattutto se stessi. Ma. C'è un "ma" che riguarda le risorse e le motivazioni alla base dell'impegno emotivo nella relazione d'aiuto.
Entrare nei problemi, nelle sofferenze dell'altro volontariamente è un gesto umano. E proprio in quanto umano, inevitabilmente, profondamente faticoso. Da una parte si corre il rischio di sentirsi impotenti quando ci si rende conto che il proprio aiuto non sempre è sufficiente. Dall'altra, invece, c'è la possibilità di essere investiti da un senso di onnipotenza che porta, però, ad autoannullarsi nel tentativo spasmodico di donarsi agli altri. In entrambi i casi, le energie, fisiche e psicologiche, non sono infinite.
La ricerca ha interessato un campione di 86 operatori volontari, il 78% donne, con età media di 57 anni, in prevalenza pensionati, casalinghe e impiegati, in servizio mediamente da 6 anni. L'obiettivo è stato individuare e comprendere i vissuti e i significati costruiti intorno all'attività di volontariato, in relazione alle caratteristiche della sindrome del burn out.
I fattori di rischio registrati sono diversi: in comune, la centralità in ogni momento della propria vita emotiva dell'esperienza del volontariato. Qualche esempio? Cominciamo dalle emozioni non contestualizzate di frustrazione, impotenza, fatica psicologica, sensazione di non poter essere utili concretamente; la pretesa da se stessi d fare di più rispetto a quanto fatto nell'ultimo periodo di attività; ripensare al proprio turno di volontariato quando ci si trova in altri contesti, in modo generalizzato e con un'intensità medio- alta; l'essere in servizio da poco tempo; l'alto turn over; la mancanza di una dimensione di gruppo unita al desiderio di condividere maggiori momenti di confronto e scambio.
Da questi "pericoli" nasce l'elaborazione di soluzioni che nella loro semplicità nascondono percorsi interiori necessari a non bruciare alla fonte le proprie risorse, partendo dalla presa di coscienza di non poter fare tutto, di essere parte di un meccanismo più ampio. E ancora, l'autogratificazione e l'orgoglio per ciò che si riesce a fare, la necessità di avere una persona vicina che dia supporto emotivo, di affrontare momenti di formazione e confronto nel piccolo o grande gruppo di colleghi volontari, di sentirsi parte di un progetto.
Tecnicamente il burn out è una sindrome di esaurimento emozionale, di spersonalizzazione e di riduzione delle capacità personali: nel primo caso si fa riferimento alla sensazione costante di essere in tensione, come sopraffatti, logorati, inariditi emotivamente nel rapporto con gli altri; nel secondo, entra in gioco l'atteggiamento di allontanamento e rifiuto verso l'utenza che riceve una prestazione professionale, un servizio o una cura con un range di approcci che spaziano dal distacco al cinismo; nel terzo, si tratta della percezione della propria inadeguatezza e inefficienza al lavoro, la caduta dell'autostima e la sensazione di insuccesso nel proprio lavoro.
Alberto Picci