Morire in Pakistan non fa notizia

Tutti i media parlano del massacro in Siria perché coinvolge la politica internazionale, nessuno delle migliaia di persone coinvolte negli scontri tra l’esercito di Islamabad e talebani

01/06/2012

Il terremoto in Emilia, il massacro in Siria, la crisi economica. Il discorso è vecchio, ma l'informazione ha la tendenza, solo a volte necessaria e giustificabile, di concentrare l'attenzione sugli argomenti che "tirano" di più. È però un dato di fatto che ci sono conflitti "silenziosi", molti conflitti in tutto il mondo, che ogni giorno mietono vittime e costringono all'esodo migliaia di persone comuni, incolpevoli e inermi. Il fatto che non se ne parli non significa che si possa fare finta di niente. Grazie alla segnalazione del Cesvi, dunque, proviamo a tenere viva l'attenzione sul caso del Pakistan dove gli ultimi dati forniti dall'Ocha offrono un bilancio drammatico della situazione nel Paese che parla di oltre 685.550 sfollati nelle sole regioni di Kpk e Fatma, e oltre 3 mila le famiglie che ogni giorno cercano rifugio nel campo profughi Jalozai, a Nowshera. Da cosa scappano? Nel nord-ovest del Paese il Governo sta mettendo in atto da mesi un'"operazione di sicurezza" che si fa quotidianamente più serrata nel tentativo di respingere la controffensiva delle milizie talebane riorganizzate. E le prospettive sono ancor peggiori: gli analisti pensano che l'intervento potrebbe proseguire ancora per i prossimi 6-9 mesi.


I bombardamenti sono sempre più pressanti e i villaggi più isolati vengono avvisati dell'imminenza dell'operazione solo poche ore prima che questi si compiano: a volte non si ha neanche il tempo di caricare le masserizie e mettersi in fuga. Il quadro dipinto dal Forum umanitario pakistano e dal Network umanitario internazionale è più che allarmante: a causa del sovraffollamento degli sfollati, nei distretti interessati, cibo e acqua non bastano più e di conseguenza nemmeno i servizi igienici e l'assistenza sanitaria possono più essere garantite rispettando i minimi standard di efficienza. Solo il 10% delle famiglie che si presentano al Jalozai si registra correttamente potendo così godere dei servizi del campo: il restante 90%, scoraggiato dai tempi di attesa, preferisce organizzarsi da sé, creando di fatto una situazione incontrollabile che spesso sfocia anche in ribellioni e contestazioni tra gli stessi profughi. 

Il Cesvi, attivo in Pakistan dal 2006, sta effettuando una delicata operazione di monitoraggio nell'intera area di Nowshera: «Siamo state tra le prime ong a organizzare team di lavoro e a svolgere un rapido monitoraggio dei bisogni sia all'interno del campo sia all'esterno, in coordinamento con l’Ong Iscos/CISL - spiega Pietro Fiore, rappresentante del Cesvi in Pakistan-. L’attenzione è rivolta in modo particolare alle famiglie più vulnerabili, con un elevato numero di bambini o con nessuna possibilità di guadagno. Tali famiglie hanno più che mai bisogno di un supporto data la criticità della situazione. Oltre alla distribuzione di beni non alimentari - in primo luogo tende e ripari – Cesvi ha avviato attività di cash for work con l’obiettivo di generare un piccolo reddito per le famiglie sfollate e soddisfare così le loro necessità di base in maniera flessibile».

Alberto Picci
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