Paradisi fiscali e finte donazioni

L'inchiesta dell'Espresso sulle società off shore cita indirettamente tre onlus italiane vittime inconsapevoli di affari illeciti. Ecco le loro risposte

05/04/2013

Trust sospetti, società off shore e paradisi fiscali: tanti i nomi coinvolti dall'inchiesta pubblicata oggi dall'Espresso. Tra i soggetti interessati, in qualità di beneficiari, tre importanti enti caritatevoli quali l'Unione Italiana Ciechi, la Lila (Lega italiana per la lottta contro l'Aids) e il Centro per il bambino maltrattato. La notizia ha destato scandalo, nonostante l'aggiunta finale del giornalista, attribuita a un'anonima fonte svizzera, in cui si descrive il coinvolgimento delle associazioni come possibile "escamotage" per evitare controlli della magistratura. Ma le ombre rischiano di restare. Ecco cosa ci ha risposto Luigi Mariani, il presidente del Cbm Milano.


Quando e come siete stati contattati dal giornalista dell'Espresso?
«È successo che la nostra associazione, la cui dicitura completa è Centro per il bambino maltrattato e per la cura della crisi familiare, è stata trascinata in una vicenda di malaffare finanziario internazionale che non ha nessuna attinenza con il nostro impegno e il nostro lavoro. Nei file che il giornalista dell’Espresso Leo Sisti ha potuto consultare e che sono alla base dell’inchiesta pubblicata dal settimanale appare anche una società, genericamente indicata come Centro per Bambini maltrattati (al plurale), che avrebbe ricevuto donazioni da almeno tre Trust situati in paradisi fiscali. Non è vero, ovvio: ma devo dire che per la prima volta il Cbm prova sulla propria pelle la potenza devastante della mezza notizia – tutta da verificare – che passando di bocca in bocca diventa verità indiscutibile e poi capo d’accusa. Di cui bisogna addirittura discolparsi».

Il giornalista vi ha chiesto chiarimenti?
«Tutto è cominciato con una telefonata di Sisti, molto cortese, che mi chiedeva se eravamo a conoscenza di donazioni al Cbm avvenute tra il 2000 e il 2006 da parte di Trust che facevano capo a uno studio londinese, il “Pearson & Lowe”. Il mio no è stato deciso, per due motivi: in quegli anni non abbiamo avuto donatori dall’estero e le donazioni sono state tutte di privati ben conosciuti. In ogni caso ho garantito la verifica puntuale di tutte le donazioni ricevute: fatta la verifica, il risultato ha confermato il primo no. Nessuna donazione da quelle organizzazioni. Tanto che il giornalista stesso ha convenuto che probabilmente il nostro nome – storpiato al plurale – era stato fatto per mettere foglie di fico sopra affari – quelli sì – poco puliti».

Vi sono state date delle "garanzie"?
«Da quel momento le telefonate, più d’una e molto cordiali, si sono trasformate in richieste di collaborazione: se conoscevamo altri centri simili al nostro, se conoscevamo le persone e le società presenti nei file, se dubitavamo di qualcuno che potesse aver vantaggi nel citarci in una lista di maledetti. Ora: i centri e le associazioni che si occupano di bambini maltrattati in Italia sono fortunatamente tanti, ma tutti nelle nostre condizioni di estrema correttezza e di estrema difficoltà economica. Sul resto le nostre conoscenze stavano a zero: non siamo certo in quei giri lì! Abbiamo invece manifestato tutta la nostra perplessità e scetticismo sul coinvolgimento dell’Unione Italiana Ciechi, che conosciamo direttamente».

Avete fatto le dovute verifiche sulle donazioni?
«Ci è stata chiesta una posizione ufficiale e scritta, con la promessa di pubblicazione: cosa che abbiamo prontamente mandato a Leo Sisti. Non è stata pubblicata e non è servita granché, se non a far dire che “i dirigenti sembrano cadere dalle nuvole”. Perché non dire semplicemente che non risultano donazioni fatte al Cbm da Trust di qualsiasi tipo?».

Ci sono tracce dei nomi dei mandanti?
«Leo Sisti ci ha girato per mail l’elenco dei “sospetti” e l’elenco dei Trust oggetto della sua inchiesta: nessuno di quei nomi e di quelle società è conosciuto da noi. E il bello è che nemmeno riusciamo a immaginare chi possa volerci così male da infilarci nell’elenco dei beneficiati da compagnie moralmente inaffidabili».

Ci dite quanto siete andati "in rosso" nel periodo di riferimento?
«Chi minimamente conosce la realtà del non profit sa che dal 2008 – con la crisi finanziaria ed economica che ha devastato metà mondo – il nostro settore è in gravissima sofferenza. È sempre più difficile per la Pubblica Amministrazione far fronte ai bisogni di un welfare molto particolare: bambini, adolescenti, donne vittime di violenze e abusi – e i loro maltrattatori - hanno bisogno di valutazioni e terapie lunghe, faticose, costose che difficilmente stanno nei budget sempre più risicati di Comuni, Province, Asl. Per questo noi, come tutti quelli che come noi curano il disagio sociale, siamo costantemente con i bilanci in perdita, pareggiati dall’impegno straordinario degli operatori che accettano compensi veramente all’osso e dall’intervento di persone, fondazioni e società che ci conoscono bene, vogliono sapere tutto del nostro metodo, chiedono dei nostri risultati alla luce del sole: altro che Trust completamente opachi e sconosciuti».


Ci date un quadro della vostra situazione economica?
«Prima del 2008 i nostri bilanci erano in un risicatissimo utile (+ 6.235 euro nel 2000; + 13.933 euro nel 2003; + 8.659 nel 2007) oppure in deficit sopportabili: - 13.791 del 2005. E dunque non avevamo bisogno di aiuti straordinari. Dal 2008 (- 56.931) i costi sono costantemente superiori ai ricavi, nonostante tagli dolorosi e interventi di ridimensionamento. Ora davvero abbiamo bisogno di sostegno, aiuto, solidarietà, oltre che della nostra capacità di ottenere risultati straordinari con poco, molto poco».


Perché proprio voi?
«Onestamente è la domanda che si è fatto persino Sisti, ci facciamo noi, ci rivolgono amici e sostenitori: non c’è risposta, se non la volontà di depistare eventuali inchieste e indagini. Devo dire che purtroppo l’obiettivo è stato raggiunto, perché non solo Sisti, che pure è giornalista di lungo corso, ma anche Mentana, Radio Popolare e tante testate serie non sono stati capaci di sottrarsi al fascino sinistro dello scoop su una piccola non profit che ora – dopo ridimensionamenti e tagli – fattura circa un milione e settecentomila euro dando lavoro a 60 collaboratori. Certo: tutti poi disposti a dire che non c’è alcun senso… Ma ormai il fango buttato nel ventilatore ha fatto il suo lavoro».


Cosa farete adesso?
«Ci impegneremo per fare di più e meglio di come abbiamo sempre fatto: il senso della missione del Cbm è talmente alto e importante che fra tre giorni non ci penseremo più e ci dedicheremo ai nostri progetti per le famiglie. Però un esposto denuncia è già in preparazione: non possiamo lasciar correre su una mezza notizia mal congegnata che ha devastato la nostra reputazione. Inutile nasconderselo, le persone che ci conoscono ci telefonano per esprimere solidarietà e persino qualche battuta»

La Lila a sua volta è intervenuta sul sito con un comunicato:


«Abbiamo saputo dell'inchiesta dell'Espresso quando ci hanno contattato per uno scambio di informazioni su un "trust" in cui la Lila verrebbe indicata come beneficiaria. Di cosa non si sa, dato che ci sarebbero, così ci è stato riferito, documenti riferiti a persone e luoghi ma non a transazioni di denaro. Transazioni che peraltro alla Lila non risultano, tantomeno transazioni che facciano capo a un trust. Abbiamo da subito dichiarato la nostra totale estraneità alla vicenda». 

«L'inchiesta dell'Espresso è parte di un'inchiesta più vasta portata avanti da più di 40 giornalisti di decine di Paesi, sollevando scandalo vista la presenza di politici in quello che sembrerebbe un meccanismo globale di evasione fiscale. I giornalisti, tra cui l'Espresso, hanno avuto a disposizione parte di un "leak" di documenti riservati su aziende offshore e paradisi fiscali, riferita al proprio Paese, e a qualche anno fa, per poter fare le opportune verifiche. In Italia si è segnalata la presenza di alcune facoltose famiglie, alcune delle quali facenti riferimento a dei trust, in cui è registrata la presenza di alcune charity (oltre alla Lila ci sono "Unione italiana ciechi" e "Centro per il bambino maltrattato")». 

«Perciò ci hanno chiesto un riscontro. Che è stato negativo. La Lila Nazionale Onlus è una federazione che opera in assoluta trasparenza e con modalità assembleari e pubblica i suoi bilanci. Non riceve denaro dalle aziende farmaceutiche, vive di donazioni e lasciti e di 5 per mille. Nei giorni scorsi all'Espresso è stata recapitata la seguente nota:La Lega Italiana per la Lotta contro l'Aids respinge fermamente, fatte le opportune verifiche, ogni ipotesi di coinvolgimento in un qualsiasi Trust. La Lila non risulta ad alcun titolo beneficiaria di qualsiasi passaggio di denaro con le persone e le sigle a noi indicate dal giornalista dell'Espresso Leo Sisti, e si riserva, ove se ne presentasse la necessità, opportune azioni legali a tutela della propria onorabilità».

Anche l'Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti Onlus è intervenuta:


«Con grande sorpresa e stupore si è appreso dai principali media che l’Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti Onlus, insieme ad altre due fondazioni definite “caritatevoli”, compare tra i beneficiari di due trust. Il Presidente Nazionale Tommaso Daniele smentisce categoricamente ogni rapporto con i suddetti trust, del tutto sconosciuti alla sede centrale e alle sedi periferiche dell’Unione: infatti il Presidente dichiara di aver svolto una indagine interna dalla quale risulta l’assoluta estraneità a quanto riportato dai media. Pertanto si invita chi ha effettuato l’inchiesta a fornire notizie dettagliate su chi avrebbe effettuato le donazioni e sui soggetti che le hanno ricevute, tutto questo per avere la possibilità di tutelare il buon nome e l’immagine dell’Associazione». 

«L’Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti Onlus si riserva di adire le vie legali ove ne ricorressero gli estremi. Si prende atto che chi ha effettuato l’inchiesta ha segnalato che le fondazioni hanno dichiarato di essere estranee alla vicenda e che chi ha utilizzato il nome delle “Charities” lo ha fatto, probabilmente, per mettersi al riparo da inchieste della magistratura».

Alberta Perolo
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