Obiettivi (mancati?) del millennio

Parla Sandro Calvani, a lungo funzionario di spicco dell'Onu e oggi direttore del centro Asean di eccellenza sugli Obiettivi di sviluppo del millennio di Bangkok, in Thailandia.

01/01/2011
Sandro Calvani
Sandro Calvani

Il 2010 s'è lasciato alle spalle un pianeta ancora segnato da profonde diseguaglianze e lancinanti sofferenze. Nel mondo che si sta stropicciando gli occhi cercando di scrutare da vicino l'anno nuovo, oltre un miliardo di persone non ha accesso diretto all'acqua potabile, 925 milioni di persone non hanno cibo a sufficienza, 872 milioni non sanno nè leggere nè scrivere, 42 milioni convivono con il virus Hiv o sono ammalati di Aids spesso prive delle medicine necessarie a combattere questo flagello.  

      Sono passati oltre dieci anni da quel settembre in cui, con un consenso mai visto nella storia, l’Onu si schierò contro la povertà mondiale firmando la Dichiarazione del Millennio, un impegno sottoscritto dai paesi ricchi per realizzare interventi concreti di contrasto alla povertà in quelli in via di sviluppo. Un programma ambizioso da realizzare in 15 anni. Ne mancano un po' meno di 5 e c’è ancora tanto, forse troppo, da fare perché «si continua ad affrontare i problemi di oggi con le conoscenze di ieri».

A sostenerlo è Sandro Calvani, direttore del centro Asean di eccellenza sugli Obiettivi di sviluppo del millennio presso l’Asian Institute of Technology di Bangkok, in Thailandia. Nato a Genova nel ‘52, Calvani è un uomo delle istituzioni. Ha avuto diversi e importanti incarichi soprattutto in Paesi in via di sviluppo, dall’Organizzazione mondiale della Sanità in Africa, all’Unodc in Colombia  (l'Unodc è l'agenzia delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine), per tornare in Italia nelle vesti di direttore dell’Unicri, Istituto delle Nazioni Unite per la ricerca sul crimine e la giustizia). Calvani, però, è soprattutto un cittadino del mondo, grazie all'esperienza di oltre trent’anni di impegno internazionale, che assieme alla passione per il viaggio, lo ha portato in ben 135 Nazioni.

Ci sono analisti che dicono che all'Onu la globalizzazione la vedete come problema sociale quando invece la matassa andrebbe sbrogliata prima dalla parte dell'economia e della politica. Lei da che parte sta?

«Sono vere ambedue le analisi. L’Onu ha dato priorità operativa allo sviluppo sociale; i cosiddetti Obiettivi di sviluppo del millennio (Odm) puntano sullo sviluppo delle persone come protagonisti della crescita dei loro paesi. Però è anche vero che il mondo non sta facendo le scelte economiche corrette e non ha trovato leader politici capaci di far succedere quello sviluppo che era stato promesso all’umanità intera. Si trovano somme inimmaginabili per salvare le banche in crisi, ma non per investire in sicurezza alimentare, salute, lavoro ed educazione. In alcuni paesi chiave per lo sviluppo e per i diritti, la politica invece che l’arte del possibile è di fatto il servizio di ciò che conviene ai prepotenti».

Nel 2000, 192 Paesi, con un consenso mai visto nella storia dell'Onu, si erano messi d'accordo di dire basta alla povertà. A cinque anni dal traguardo per gli Odm, però, si sente spesso parlare di promesse non mantenute e di poche tabelle di marcia rispettate. Cos'è che non ha funzionato?

        «Sono state più le cose che hanno funzionato che quelle che hanno fatto fiasco. Ma gli errori sono stati così grossi che ora il raggiungimento degli obiettivi è a rischio. Prima di tutto non c’è stata una leadership ed una governance adatta all’ordine di grandezza della promessa fatta al mondo intero. Poi si continua ad affrontare i problemi di oggi con le conoscenze di ieri. Manca il senso dell’urgenza e l’ applicazione di regole per ridurre rischi ed errori. Tuttavia il fatto che in alcuni paesi ci sono alcuni Obiettivi già raggiunti con un anticipo di cinque anni dimostra che quanto pianificato e deciso non era una Mission Impossible. Le questioni che mettono in dubbio il raggiungimento degli Odm non sono la fattibilità ma piuttosto la volontà, le attitudini, gli strumenti. Siamo di fronte a una corsa ad alta velocità con traguardi raggiungibili. Una specie di Formula Uno della dignità umana. Se i motori si sono fusi e pochi vanno a trecento all’ora è solo perché abbiamo messo in pista le 500 invece delle Ferrari e nessuno ha badato a scegliere i piloti più capaci».

Visti con gli occhi degli italiani gli aiuti allo sviluppo hanno avuto sempre connotati solidaristici.
Lei a quali parole legherebbe il significato di tali progetti?

«Quasi mai gli aiuti allo sviluppo sono solo solidaristici. Sono sempre questioni di giustizia, di libertà e diritti fondamentali, di dignità della razza umana. In pratica ogni forma di restituzione verso i paesi poveri è una parola di saggezza applicata per permettere alla specie dell’ homo sapiens di poter evolversi il più presto possibile in una nuova specie di homo solicitus, cioè capace di prendersi cura dell’umanità intera e di tutto il Pianeta Terra. Diceva Darwin che non è mai la specie più forte o la più intelligente che sopravvive, ma quella che sa cambiare. Io dico che la vera “sapienza” del Sapiens è il “saper cambiare” dall’ingiustizia all’uguaglianza delle opportunità, dalla prepotenza al servizio, dallo sfruttamento delle risorse alla loro conservazione e protezione del diritto delle prossime generazioni».

Ma non è che l'Onu, o almeno alcuni dei suoi leader, sono più parte del problema che della soluzione?

«Quasi certamente l’Onu è parte del problema e lo sono certi suoi leader. Ma le Nazioni Unite sono anche un’amministrazione di un condominio mondiale dove gli inquilini, cioè le Nazioni, litigano su cose ovvie come l’acqua e l’energia, attribuendo poi la colpa all’amministratore, che tra l’altro non può nemmeno obbligarli a pagare le quote o a rispettare il regolamento condominiale che i paesi stessi hanno votato e firmato. Se l’Onu è un ingranaggio arrugginito della macchina della giustizia globale, certo non è né l’unico né quello che blocca tutto il motore. I Paesi ricchi hanno fatto sforzi limitati e quasi esclusivamente sul piano degli aiuti, peraltro scarsi, senza pensare invece agli ingranaggi bloccati come le aperture dei mercati, la cessazione dei sussidi agricoli, l’eliminazione della corruzione, il miglioramento delle leadership politiche, l’educazione alle responsabilità globali, la pianificazione delle migrazioni».

A cura di Alberto Chiara e di Giovanni Augello, Il redattore sociale
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