20/12/2012
L'ingresso dell'area maschile del Cie di Ponte Galeria (© Medici per i diritti umani)
Ponte Galeria, in provincia di Roma: qui c’è il più grande dei dodici Centri d’identificazione ed espulsione (Cie) italiani. Luoghi di detenzione, con sbarre alte sette metri e filo spinato, sorvegliati giorno e notte da militari e agenti, dove si finisce perché privi del permesso di soggiorno. «Dai Cie si esce in condizioni di salute generalmente peggiori rispetto a quando si è entrati», spiega Alberto Barbieri, coordinatore di Medici per i diritti umani.
Racconta la storia di Omar, 30 anni, emigrato dall’Africa occidentale e conosciuto proprio a Ponte Galeria. Dice Barbieri: «A Ponte Galeria, quattro persone su cinque arrivano dal carcere. Anche Omar aveva sbagliato e pagato il suo errore con due anni di galera». Alla fine della pena, però, è iniziata una nuova detenzione. Nei Cie, infatti, si vive sospesi: dal 2011, la "permanenza" è stata prolungata da sei a diciotto mesi. Tuttavia, il 60% degli "ospiti" non viene identificato né rimpatriato ma rilasciato, ugualmente senza documenti, dopo diciotto mesi. Con un anno e mezzo di vita in meno.
Ricorda Barbieri: «Proprio durante il periodo di carcere, Omar comincia a notare una piccola tumefazione al braccio sinistro, all’altezza del bicipite. Segnala subito il problema ai medici del penitenziario, anche perché col tempo la tumefazione continua a crescere e a causargli dolore. Non è facile avere accesso ad accertamenti diagnostici fuori dal carcere. Poi, finalmente, una biopsia rileva un tumore benigno e il responso pare tranquillizzante».
Dopo undici mesi dai primi sintomi, Omar è trasferito a Ponte Galeria e chiede immediatamente aiuto perché la massa tumorale continua a crescere. Ma nei Cie, per ogni visita esterna, il paziente dev’essere scortato obbligatoriamente dalla polizia. Ed è a causa della mancanza della scorta che la visita chirurgica salta una prima volta. In un’altra occasione Omar riesce ad arrivare in ospedale ma è accompagnato con un ritardo tale che la visita ambulatoriale non si può effettuare. Viene allora visitato da un medico del pronto soccorso che si rende conto della gravità della situazione e cerca di far ricoverare il paziente in ogni modo. «Finalmente avevo davanti un medico che prendeva sul serio quello che gli dicevo. Capiva che stavo male veramente e che non fingevo», ricorda Omar.
Il ricovero, però, non è autorizzato e il paziente viene ricondotto al Cie. Dopo altri due mesi, riesce a essere sottoposto a una risonanza magnetica. Nel frattempo, però, la tumefazione al braccio ha raggiunto le dimensioni di un’arancia e gli analgesici prescritti dal personale di Ponte Galeria non leniscono i dolori.
L’avvocato di Omar contatta Medici per i diritti umani, ma il colloquio non viene autorizzato. Gli “ospiti”, come sono chiamati dal ministero, possono incontrare solo il proprio avvocato, i familiari di primo grado e i conviventi. Spiega Barbieri: «Se Omar fosse stato ancora in carcere, avrebbe avuto il diritto di incontrarmi, ma nel Cie no. Del resto, nel Cie non è consentito agli “ospiti”, per presunti motivi di sicurezza, il possesso di libri, giornali, penne, pettini. Fino a episodi grottescchi, come quando l’anno scorso, nei mesi più freddi e in camerate spesso prive di riscaldamento, i detenuti di Ponte Galeria dovettero dar vita a una protesta, “la rivolta delle ciabatte”, perché obbligati da un’ordinanza prefettizia a indossarle al posto di scarpe coi lacci, per scongiurare pericoli di fughe. Sono queste imposizioni quotidiane che rivelano le dinamiche di degradazione della dignità umana».
Lo conferma anche una ragazza bosniaca “ospite”: «Le condizioni qui sono terribili perché la dignità di una donna non esiste. Nel bagno non c’è la porta. Un pettine non esiste e dobbiamo pettinarci con le forchette. D’inverno, fa freddo perché il riscaldamento è rotto e l’acqua calda spesso manca. Uno può non avere i documenti, ma non è giusto stare in queste condizioni, trattati come bestie, vivendo nella sporcizia. Durante il giorno non sappiamo cosa fare. Non c’è niente da fare».
La vita dolorosa di Omar prosegue. Passa un altro mese prima che possa essere ricoverato in ospedale. A febbraio, tredici mesi dopo i primi segni della malattia, Omar entra in una sala operatoria e il tumore viene asportato. È un tumore maligno aggressivo, con alta frequenza di recidiva. A questo punto, finalmente, Omar può lasciare Ponte Galeria, può essere “dismesso”, secondo un inquietante neologismo utilizzato fino a poco tempo fa dal personale dei Cie. Seguono cicli di chemioterapie, nuovi interventi e metastasi polmonari. Ora, “grazie” alla malattia che lo pone in pericolo di vita, Omar non rischia, almeno per il momento, di essere espulso dal nostro Paese.
Conclude il dottor Barbieri: «La storia di Omar non è eccezionale, rientra nella drammatica quotidianità di tanti immigrati per cui il diritto alla salute nei Cie non viene rispettato». Il medico ricorda che l’Organizzazione mondiale della sanità definisce la salute “stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia”; eppure, i racconti dai Cie parlano di pestaggi non denunciati per paura, armadietti delle infermerie pieni di psicofarmaci, terapie a base di sedativi, tentativi di suicidio, fughe e rivolte.
Anche i dati confermano il quadro: a Torino, nel 2011 sono avvenuti 156 atti di autolesionismo, cento per ingestione di corpi estranei e 56 per ferite d’arma da taglio; a Ponte Galeria, inoltre, il 50% dei detenuti è sotto ansiolitici, senza prescrizione medica.
Stefano Pasta