19/07/2012
Una protesta dei braccianti immigrati a Rosarno, in provincia di Reggio Calabria (Abbate fotoagenzia Napoli). L'immagine di copertina e di Alessandro Tosatto.
A due anni e mezzo dalla rivolta a Rosarno, in provincia di Reggio Calabria, il 90,7% dei braccianti migranti lavora in nero, 4 su 10 vivono con meno di 50 euro a settimana, il 60% è bloccato in un limbo giuridico senza ottenere i documenti. Ma, soprattutto, “calano i controlli, torna l’illegalità diffusa e aumenta il degrado e il sopruso dei diritti”. È questa la fotografia scattata dal Dossier Radici/Rosarno di Fondazione IntegrA/Azione e Rete Radici, presentato ieri al Senato, che ha monitorato per il terzo anno le condizioni lavorative, abitative e sanitarie dei braccianti che, da ottobre a marzo, arrivano nella Piana di Rosarno per raccogliere gli agrumi.
Alcune immagini scattate agli immigrati che raccolgono gli agrumi a Rosarno e ai casolari abbandonati - senza acqua, luce e gas - in cui vivono anche a gruppi di 15-20 persone (fotografie a cura Fondazione IntegrA/Azione e Rete Radici).
Sono oltre 2.000, quasi tutti africani (Mali, Senegal, Guinea, Costa
d’Avorio), uomini con un’età media di 29 anni e soprattutto senza
permesso di soggiorno nel 72% dei casi. L’87% svolgeva lavori manuali
nel paese d’origine, ma con una grande varietà professionale: a
raccogliere le arance di Rosarno sono sarti, meccanici, saldatori e
elettricisti, ma anche ragazzi che nel loro paese erano studenti,
poliziotti, agenti assicurativi, politici locali e soldati
dell’esercito. Arrivare a Rosarno ha significato livellarsi all’unica
domanda di lavoro possibile e perdere la propria specificità.
Vivono come uomini trasparenti: presenti quando c’è da spezzarsi la schiena in campagna ma invisibili per lo Stato e senza alcuna protezione giuridica.
La quasi totalità della popolazione immigrata a Rosarno e dintorni ha presentato la richiesta di protezione internazionale, ma una condizione del genere rende fragile lo straniero. Con la ricevuta della domanda di asilo, infatti, non si può essere assunti regolarmente e di conseguenza si diventa ricattabili, merce a basso costo sul mercato del caporalato, manodopera d’occasione. “Se non hai documenti devi accettare tutto, lavorare anche 12 ore al giorno per 25 euro e, se non ti pagano o ti bastonano, non puoi andare neppure alla polizia a denunciare.
Senza documenti, non conti niente”, sintetizza Koudous, 26 anni, arrivato 4 anni fa dal Burkina Faso. La sua è una storia comune tra gli agrumeti di Rosarno: “viaggio della speranza” nel Mediterraneo, Lampedusa, centro per richiedenti asilo politico a Crotone, rifiuto della protezione internazionale e del permesso di soggiorno, lavoro nero nelle campagne calabresi. Il salario è a giornata (20-25 euro), oppure “a cassetta”, con un prezzo standard: 1 euro per i mandarini, 50 centesimi per le arance. “Orari? No, non ci sono, li decide il capo”, spiega Koudous. Mediamente, i braccianti riescono a lavorare tre o quattro giorni alla settimana, alcuni anche solo uno. Il lavoro si trova “in piazza”, o tramite la figura del caporale, migrante o italiano, che resta un’abusata modalità d’ingaggio: provvede a fornire il posto e spesso trattiene una percentuale della paga giornaliera, tra i 2,5 e i 5 euro a lavoratore.
Secondo il Dossier Radici/Rosarno, nella stagione agrumicola di quest’anno, il lavoro nero è salito al 90,7% rispetto al 75% dello scorso anno. “In tre anni tra mandarini, arance e olive, non ho mai visto un controllo sul posto di lavoro”, racconta Koudous, mentre il rapporto nota che dalle ispezioni effettuate dalla Direzione provinciale del Lavoro di Reggio Calabria in tutta la Piana di Gioia Tauro, su un totale di 1.082 posizioni lavorative verificate, solo il 9% riguarda cittadini extracomunitari.
Un migrante su due spedisce parte dei guadagni alle famiglie lasciate nei Paesi d’origine: Koudous a suo figlio Zeinabu, 7 anni. “Ma alle nostre famiglie non raccontiamo che qui viviamo in casolari abbandonati senza acqua, luce e gas, e mangiamo alle mense della Caritas”. L’accoglienza istituzionale, come la nuova tendopoli di San Ferdinando, non è sufficiente a coprire la domanda. Pochi riescono a trovare un alloggio degno di questo nome e molti migranti si organizzano in piccoli gruppi di 5-10 persone in abitazioni occupate, che diventano 15-20 nei casolari.
Ma in centinaia affollano ghetti e vecchie fabbriche, come l’ex stabilimento della Pomona, il cosiddetto ghetto di Rosarno, o lo stabile dell’ex cooperativa Fabiana. Le conseguenze, inevitabilmente, sono condizioni igienico-sanitarie spaventose, una dieta alimentare insufficiente e squilibrata, che, aggiunte a un’attività lavorativa sfiancante, determina un precario stato di salute. Malattie infettive, infezioni alle vie respiratorie (dovute in molti casi all’uso di sostanze chimiche nei campi), aggravate dal freddo e dal fumo dei fuochi accesi per riscaldarsi, disturbi dell’apparato gastrointestinale per via di diete povere e dall’utilizzo di acqua non potabile. Yeroslav Hrinchishyn, ad esempio, ucraino di 44 anni, l’ha ammazzato il freddo dopo una lunga giornata di lavoro, il 14 febbraio 2012, a Rosarno.
Per i curatori del Dossier, il vero nodo da sciogliere è il modello mediterraneo dell’agricoltura, di cui Rosarno è uno dei nodi principali: è in piedi da un paio di decenni e si fonda su lavoro nero, sfruttamento e caporalato. E per i migranti è praticamente impossibile sfuggire a questi meccanismi perversi. A inizio di luglio, una buona notizia è arrivata dall’approvazione, voluta dal Ministro Riccardi, della cosiddetta “norma Rosarno”: a settembre, i datori di lavoro che occupano alle proprie dipendenze extracomunitari irregolari potranno regolarizzarli con il regime di “ravvedimento operoso”.
Secondo Luca Odeaine, presidente della Fondazione IntegrA/Azione, “l’approvazione della direttiva Ue (la 2009/52/Ce) in materia di emersione del lavoro nero si è fatta anche troppo attendere, visto e considerato che sarebbe dovuta essere recepita entro luglio 2011. La sanatoria di settembre apre uno spiraglio importantissimo al miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori. Con il rilascio di un permesso di soggiorno di sei mesi rinnovabile si restituisce parte di quella dignità perduta e s'incoraggia il ripristino della legalità”.
Stefano Pasta