05/09/2011
L'equipaggio della "Savina Caylyn" sequestrato dai pirati somali.
“Fate presto. Ormai lo stremo delle forze è superato da un pezzo. Siamo sotto il tiro dei mitra, con un pugno di riso e un po’ d’acqua al giorno, senza farmaci, con un solo bagno per 60 persone. A bordo manca tutto e non riusciamo più a resistere… Alcuni di noi sono malati, si sentono abbandonati… Fate il possibile per chiudere al più presto i negoziati e questa triste storia, per riunirci alle nostre famiglie”. È un’emergenza umanitaria quella che trapela, in una delle sue ultime telefonate satellitari da bordo il 9 agosto scorso, dalle parole di Giuseppe Lubrano Lavadera, il comandante della petroliera “Savina Caylyn” sequestrata dai pirati somali l’8 febbraio 2011 con il suo equipaggio di 22 uomini: 17 indiani e cinque italiani.
Con il comandante, 47enne procidano come il terzo ufficiale di coperta, Crescenzo Guardascione - 40 anni compiuti in prigionia il 19 agosto - ci sono il direttore di macchina Antonio Verrecchia, 62 anni, di Gaeta; il triestino Eugenio Bon, 30 anni, primo ufficiale, e il giovane allievo di coperta Gianmaria Cesaro, classe 1985, di Piano di Sorrento. Sono padri, mariti, figli, fratelli legatissimi alle loro famiglie in angosciosa attesa da sette mesi, che condividono questa sorte drammatica anche con i familiari di un secondo equipaggio sequestrato due mesi più tardi, il 21 aprile, a bordo di un’altra nave italiana, la “Rosalia D’Amato”, con 22 uomini di equipaggio a bordo: 16 filippini e 6 italiani (tra i quali due siciliani e quattro campani: due di essi, Gennaro Odoaldo e Vincenzo Ambrosino, di Procida, l’Isola che oltre a fornire la sua “meglio gioventù” alla marineria italiana paga anche il tributo più alto in percentuale di uomini in ostaggio dei predoni del mare, sottoposti a vessazioni e privazioni di ogni genere).
La "Savina Caylyn".
Uomo di mare e di fede
Il comandante Giuseppe Lubrano Lavadera è un uomo di mare e di fede. Che
nei suoi ripetuti appelli riesce a mantenere ferma la voce, a non
tradire mai il suo ruolo di guida del suo equipaggio. Un uomo di fede,
di famiglia e di mare messo però a dura prova da un’esperienza limite.
Affrontata con forza e dignità: come testimonia la telefonata che
riproduciamo per gentile concessione dei familiari, datata 21 maggio,
uno degli ultimi mesi in cui sono stati più frequenti i contatti da
bordo – sei a maggio, tre a giugno -, prima di un lungo silenzio. In
questa telefonata, a circa quattro mesi dal violento arrembaggio e
sequestro dei pirati, si sente che la speranza (e la fiducia) di poter
tornare presto a casa è ancora viva. Ma con il passare dei giorni e il
peggiorare delle condizioni di sopravvivenza a bordo, è sempre più
difficile darsi - e dare - forza. Per resistere. Per riuscire a tornare
ad abbracciare i propri cari.
Lo testimonia un altro struggente
colloquio privato del comandante con la giovane moglie
Nunzia Nappa,
37enne madre coraggio delle loro due figlie. È stata una delle ultime
volte in cui Nunzia ha sentito il marito, prima di altri 55 giorni di
silenzio. Ha avuto la prontezza di spirito di registrare quei venti
minuti di dialogo, dandoci il privilegio di riascoltarlo insieme, nella
loro casa di famiglia a Procida. È il 16 giugno 2011, ore 12,07 circa
(10,07 ora italiana).
Il comandante Giuseppe Lubrano Lavadera quasi
detta alla moglie, in sei punti cruciali, le condizioni poste dalla
“piramide” (i pirati) per la loro liberazione. Un ultimatum di dieci
giorni. Abbondantemente superato. E la sua voce è forte e chiara quando
enuclea la situazione a bordo: le minacce all’equipaggio radunato e
legato sul ponte, le scorte di gasolio esaurite, i danni strutturali
alla nave, il cibo ulteriormente razionato e ridotto a una sola volta al
giorno, la mancanza di energie provocata da questa situazione di
denutrizione e immobilità forzata.
I dettagli “tecnici” si alternano a
intensi momenti di scambio affettivo con la compagna di vita che, con un
filo di voce, lo sostiene e lo conforta, a sua volta provata dagli alti
e bassi di speranze e disillusioni vissute in questo calvario che si
protrae da mesi.
Il comandante racconta anche di una scissione tra due
gruppi di pirati, che non trovano accordo sulla futura spartizione del
loro bottino, seguita da una sparatoria e dal ferimento di un giovane
somalo, da lui stesso curato. E aggiunge di aver visto la nave Horna,
ancorata a due miglia dalla Savina Caylyn, incendiarsi dopo uno scontro a
bordo tra i pirati:
“Non sappiamo se ci siano vittime, ma si vocifera
che potrebbe accadere anche a noi”, sottolinea Lubrano Lavadera, che la
moglie chiama affettuosamente “Peppino”. Al penultimo punto, il
comandante annuncia che “se la trattativa si prolungasse ulteriormente,
per ogni mese di permanenza in più la richiesta di riscatto aumenterà di
250mila dollari al mese per le spese di mantenimento”.
Ma c’è un ultimo
punto che, prosegue il comandante, “ci ha ha profondamente angosciato e
scioccato:
abbiamo ricevuto la macabra minaccia che potrebbero
procedere alla decapitazione di un membro dell’equipaggio se non
verranno esaudite le richieste di riscatto”. Di qui la speranza che
compagnia armatoriale, istituzioni e popolo italiano si attivino per
evitare questo scempio. Il timbro pacato del comandante mantiene sempre
la sua mite compostezza, nel rinnovato appello a chiunque possa
intervenire per liberarli.
Nunzia Nappa, moglile del comandante Lavadera.
Il coraggio del comandante
Ma è solo nei momenti più intimi che la voce
di Giuseppe Lubrano Lavadera si incrina a tratti per l’emozione e
risuona stanca, dimessa, quasi rassegnata, salvo riprendere vigore e
fiato quando l’uomo, marito e padre di famiglia ritorna a essere il
comandante del suo equipaggio: “Mi raccomando – insiste con la moglie –
non ci abbandonate. Non possiamo più aspettare, il rischio è che possa
succedere qualcosa di irreparabile… Cercate di concludere al più presto
le trattative, sennò sono guai… ossia violenze, che non meritiamo.
Questi sono pazzi, mangiano erba (foglie euforizzanti di khat, ndr),
possono avere reazioni particolari…”.
Poi, l’aggiunta: “Noi preghiamo
sempre il Signore, ma non ce la facciamo più e non sappiamo se
riusciremo a tornare da voi… ma se non ci riuscissi, Nunzia, sappi che
ti ho sempre amato”. Sul finire della telefonata, si sente fuori campo
la voce della figlia primogenita, 14 anni, che apostrofa il padre,
abituato a sentire ogni giorno la sua famiglia, anche in navigazione:
“Papà…ti sogno tutte le notti…”. L’uomo sembra venir meno, sussurra il
nome della figlia e un semplice, sommesso “ciao”.
Poi, la telefonata si
interrompe bruscamente. Come lo stato delle trattative per la
liberazione degli ostaggi. Senza un perché due pezzi d’Italia debbano
essere violati da così tanto tempo. A fronte di una durata media di
40-60 giorni dei sequestri di pirati. Di qui la mobilitazione nazionale
(e internazionale, con una lettera-appello a Catherine Ashton firmata
nei giorni scorsi da 53 europarlamentari italiani), con una
manifestazione il 7 settembre in piazza Montecitorio organizzata con i
familiari dei marittimi dal comitato procidano “Liberi Subito”
Donatella Trotta