08/07/2010
Un ragazzino africano, arruolato a forza, stringe il fucile (foto di Stevie Mann, Unicef)
Era il 1984 quando sentii parlare per la prima volta di bambini soldato. Mi toccava da vicino. Il mio amico Arturo Ingegneros, siciliano, compagno di una vita di sport, sci e mare, era morto a El Salvador. Ingegnere al lavoro per la costruzione di una diga nel Paese allora dilaniato dalla guerra civile, venne ucciso da un quattordicenne. A un posto di blocco, il mini-soldato a cui qualcuno aveva messo un fucile in mano sparò all’impazzata: aveva terrore della guerriglia.
“Non armate i minorenni”, diceva la campagna un po’ familiare pensata dal padre di Arturo, che non riusciva a odiare quell’adolescente che gli aveva portato via l’unico figlio, a 29 anni. Oggi Arturo Ingegneros è solo il nome di un giardino di farfalle a Giacalone, Monreale.
Sono passati ventisei anni da questa storia che quasi nessuno più ricorda, ma nonostante l’impegno di questi ultimi decenni da parte di ong e governi per la difesa dei diritti dell’infanzia, sono ancora oggi più di 250 mila i minori di diciotto anni utilizzati nei conflitti armati.
Nel maggio del 1998, sei Ong internazionali, Amnesty International, Human Rights Watch, Terre des Hommes, Save the Children, il Servizio Gesuiti per i Rifugiati e l’Ufficio Quaccheri presso le Nazioni Unite hanno costituito la Coalition to Stop the use of children soldiers La corrispondente coalizione italiana "Stop all’uso dei bambini soldato!" è nata a Roma l’anno dopo, con Alisei, , Cocis, Coopi, Focsiv, Servizio Gesuiti per i Rifugiati – Centro Astalli , Save the Children Italia, Telefono Azzurro, Terre des Hommes Italia, Unicef Italia.
Obiettivo prioritario è stato quello di creare un protocollo opzionale alla Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia per proibire il reclutamento coercitivo e l’impiego negli eserciti dei minori.
Proprio dal sito www.bambinisoldato.it ci arrivano gli ultimi dati inquietanti: la maggioranza dei “soldatini” ha dai 15 ai 18 anni, ma alcuni ne hanno solo 9/10 e la tendenza che si nota è purtroppo verso un abbassamento dell’età.
"Quando si parla di bambini soldato si pensa soprattutto a realtà come quelle dell’Afghanistan, dell’Iraq o di certi Paesi dell’Africa, alle situazioni tragiche di Congo, Somalia, Chad, Sudan. Ma anche se a qualcuno può sembrare strano, anche il Sudamerica con la Colombia del narcotraffico vanta tristi primati nel numero di ragazzini coinvolti nella guerriglia", spiega Donata Lodi, responsabile dei programmi sul campo di Unicef. "Durante i conflitti armati tutti i bambini subiscono gravi violazioni dei loro diritti. In Congo molti giovanissimi si arruolano spontaneamente dopo che i soldati hanno messo a ferro e fuoco i loro villaggi e magari ucciso, ferito e stuprato le loro mamme, per sottrarsi ai maltrattamenti o anche solo perché affascinati da fucili e divise. Il dramma è che in molti di questi Paesi le famiglie non comprendono la gravità del fatto che un bambino vada in guerra. Appare molto più disonorevole avere un bambino di strada che uno arruolato nell’esercito o comunque armato tra i guerriglieri".
L’elenco dei Paesi è stato aggiornato in un rapporto del 2006 e attualmente comprende: Afghanistan, Burundi, Chad, Colombia, Costa d’Avorio, Iraq, Liberia, Myanmar, Nepal, Filippine, Congo, Somalia, Sri Lanka, Sudan e Uganda. Qui bambini e adolescenti combattono, ma sono anche utilizzati dagli eserciti e dai gruppi armati come guardie e nelle ricognizioni, per svolgere azioni logistiche o di supporto.
"A loro toccano compiti ingrati come il trasporto di munizioni e vettovaglie, ma anche pericolosi come fungere da esche, posizionare mine", continua Donata Lodi. "Sono spesso proprio loro che vengono imbottiti di esplosivo e fatti morire nelle azioni terroristiche. Le bambine vengono “rubate” dai soldati nei villaggi e diventano schiave dell’esercito, dove subiscono continui abusi sessuali, spesso costrette anche a matrimoni in tenerissima età".
Quali sono le azioni di l’Unicef in questi Paesi?
«Il programma di Unicef è per la smobilitazione dei bambini soldato e per la loro reintegrazione nella società. Reinserire in una vita il più possibile normale ragazzini a cui è stata negata l’infanzia e che hanno conosciuto gli orrori della guerra non è facile. Tra l’altro, nell’esercito, spesso essi si sono abituati a tenori di vita molto più alti di quelli che hanno nelle loro case. Ragazzini arruolati magari a 10/11 anni e che lasciano l’esercito ormai quindicenni o sedicenni, si ritrovano di nuovo sui banchi di scuola insieme a ragazzini molto più piccoli e si sentono infastiditi, a disagio. Spesso, riconosciuti nei loro vecchi villaggi come ex soldati, e quindi come assassini, subiscono ritorsioni, maltrattamenti, linciaggi».
Tra i bambini nelle zone di guerra, ci sono categ«orie a maggior rischio di arruolamento e che hanno di conseguenza bisogno di maggiore protezione?
«Sicuramente gli orfani e coloro che sono stati separati dalle loro famiglie, come rifugiati e sfollati, i figli di donne sole o che provengono da situazioni economiche e sociali svantaggiate (per esempio, i ragazzi di strada), quelli che vivono in campi profughi o nelle zone più calde del conflitto».
Come vengono destinati i fondi raccolti da Unicef per la campagna per i bambini soldato?
«In Colombia, abbiamo promosso attività per prevenire il reclutamento dei bambini e degli adolescenti, soprattutto nelle comunità indigene e nelle fasce della popolazione ad alto tasso di violenza generata dai gruppi armati illegali dei narcos. Sono stati relizzati programmi a beneficio di 57.798 bambini e adolescenti. In Sudan si trovano gli esempi più positivi: qui l’Unicef opera sia al Sud che al Nord del Paese, con una speciale attenzione alla protezione dei bambini a rischio a causa dei postumi della guerra al Sud e del conflitto in corso in Darfur. I programmi di smobilitazione e reintegrazione dei bambini ex soldato in Sud Sudan, avviati sin dagli anni '90, hanno dato buoni risultati. Dal 2001 anche grazie alle Ong partner del programma, oltre 20.000 bambini soldato sono tornati sui banchi di scuola e alla vita civile».
Che cosa viene fatto concretamente?
«Si attuano percorsi di smobilitazione e reintegrazione familiare e sociale, con attività volte alla produzione di reddito per le famiglie e a un sostegno concreto per il recupero scolastico e la formazione professionale. Per prevenire l’arruolamento di bambini e adolescenti, si cerca di coinvolgerli dei campi sfollati in attività che promuovano sia la loro integrazione nella vita comunitaria sia l’autostima. Molti ex bambini soldato oggi sono insegnanti od operatori umanitari, e lavorano al recupero di altri ragazzi».
Cotton Belt sta coinvolgendo un gruppo di attori, personaggi noti, sportivi per promuovere questa vostra importante battaglia. Serve anche questo tipo di sostegno?
«All’inizio, visto il tema cruciale e delicato, eravamo un po’ perplessi nel lasciarci coinvolgere da una realtà come quella di Cotton Belt, che può apparire frivola, trattandosi di un marchio di moda. In realtà, si tratta di un’azienda molto seria. Il presidente Guido Andrea Monasterolo e la moglie, già molto attiva con Unicef, si sono impegnati in prima persona e ci stanno già arrivando fondi importanti. La presenza di vip che fanno da testimonial della campagna ci aiuta a far passare alla gente un messaggio difficile da comunicare e comunque così importante. In maniera semplice, diretta. Quindi, grazie anche a loro».
Giusi Galimberti