06/08/2012
Sono più di dodicimila, non mirano al
profitto e vogliono cambiare il mondo. Sono le imprese sociali
italiane: cooperative, ma non solo, fotografate dal secondo Rapporto
di Iris Network, la rete italiana di ricerca su questo spicchio di
economia “utile senza gli utili” come l’ha definita un recente
studio della Camera di Commercio di Roma.
Che cosa fanno? In prevalenza offrono servizi educativi,
sociosanitari e assistenziali, in convenzione con il settore
pubblico; è il settore più tradizionale, dominato dalle cooperative
sociali, il modello ”storico” di questo genere d’impresa. Ma
c’è molto altro, dall’ agricoltura biologica all’artigianato
in carcere, dall’energia rinnovabile di comunità alla formazione
professionale dei giovani.
Esperienze e forme organizzative molto
diverse, che hanno però in comune qualcosa d’importante: non
nascono dall’idea capitalistica di generare profitti per gli
investitori, ma da quella di produrre un bene, o un servizio,
nell’interesse della collettività. L’Unione Europea, in un
documento recentissimo, ha definito questo modello imprenditoriale
“veicolo per una riforma radicale del modello economico e sociale
dello spazio europeo, ispirata al paradigma dell’innovazione
sociale”.
Come possono andare avanti senza utili? Risposta: le
imprese sociali possono fare utili, anzi li fanno. Nel 2010 (l’anno
a cui si riferiscono i dati più recenti) oltre il 40% di esse ha
chiuso il bilancio in nero; la percentuale sale al 60% per le imprese
industriali, molte delle quali impiegano lavoratori svantaggiati. Il
trucco è reinvestire tutti gli utili per lo sviluppo dell’azienda,
infatti non si possono distribuire eventuali "dividendi" ai soci. In altre parole: il
capitale serve a far crescere l’impresa, non a generare rendite
finanziarie. E al centro dell’attività c’è il lavoro. Sempre
nel 2010, i lavoratori dipendenti erano 383.000.
Alcuni dati
Le imprese sociali censite da Iris sui dati delle Camere di Commercio sono 12.577. Di queste, 11.808 sono cooperative sociali, nelle due forme previste dalla legge italiana: quelle di servizi educativi e assistenziali e quelle di inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati. Tutte le altre sono imprese che hanno la qualifica di “sociale” in base a una legge del 2005, che ha dato questo riconoscimento anche a organizzazioni diverse dalle coop, con l’intento di favorire lo sviluppo di nuove iniziative.
Restano ancora molto poche, però, a causa di alcuni limiti della legge, spiega Carlo Borzaga, docente all’Università di Trento e grande esperto di economia sociale. «L’intenzione della legge era di consentire alle associazioni non profit di svolgere attività d’impresa senza doversi costituire in cooperativa, insomma in un modo più semplice», precisa il professore. «Il decollo non c’è stato soprattutto per uno svantaggio fiscale: infatti queste imprese non hanno la qualifica di Onlus, diversamente dalle coop sociali. Bisogna modificare la normativa».
C’è poi un vastissimo bacino di “imprese potenzialmente sociali”, tutte quelle realtà che posseggono i requisiti richiesti dalla legge del 2005 perché producono beni e servizi di interesse generale. Sono associazioni di volontariato, fondazioni, enti religiosi, che organizzano pellegrinaggi o viaggi di turismo responsabile oppure promuovono squadre sportive giovanili, per fare due esempi ricorrenti. Secondo lo studio, sarebbero oltre 110.000.
Ida Cappiello