Sindrome di Down: loro sono pronti, e noi?

Solo il 13% delle persone con sD ha un contratto di lavoro regolare: i pregiudizi non devono più rappresentare un ostacolo

11/12/2012

Marta lavora da due anni in un'azienda interinale che aiuta a cercare o a cambiare lavoro. Marta risponde al telefono, manda e-mail, smista e consegna la posta, accoglie gli utenti del servizio, fa le fotocopie, spedisce i fax, gestisce i buoni pasto. Marta ha la sindrome di Down ed è una ragazza con le idee chiare che non le manda certo a dire: «Con i colleghi mi trovo bene, non ho mai avuto problemi con loro e il rapporto è sempre stato ottimo: certo non li considero amici perché mi è difficile gestire due tipi di rapporto. Essere amici è una cosa, essere colleghi un'altra. E i miei amici sono altri». La testimonianza che ci arriva direttamente dall'Aipd,l'associazione italiana persone Down nata nel 1979 e oggi punto di riferimento per famiglie e operatori sociali, sanitari e scolastici per le questioni riguardanti questa sindrome, è l'occasione per fare il punto sulle disabilità intellettive in Italia. «Sono molto soddisfatta del mio lavoro, mi piace tutto: aiutare le persone a cercare un lavoro invece di stare con le mani in mano. Direi che sono molto contenta di me stessa e di quello che faccio. Gran parte del mio stipendio resta in banca, e una parte la uso per shopping, ricariche del cellulare, cene. Prelevo i soldi quando mi servono ma gran parte è per il mio futuro che condivido insieme con il mio fidanzato: insieme abbiamo tanti progetti tra cui unirci in matrimonio». Il fatto che Marta abbia un lavoro è quasi un'eccezione in un mondo ancora ignorante e incapace di investire nel futuro di tutti, senza disparità di trattamento: una delle più recenti e complete indagini sul tema, effettuata nel 2009 su un campione di quasi 1.300 persone con sD, dipinge un quadro in cui solo il 13% di chi ne è affetto è messo nelle condizioni di svolgere un'attività di lavoro con regolare contratto. Se a questo dato si aggiungono tirocini formativi e borse lavoro, come dimostrato dal Censis per conto della Fondazione Cesare Serono, si arriva a stento al 31% di "occupati". Di sicuro qualcosa negli ultimi anni si è mosso se è vero che rispetto alla stessa ricerca effettuata nel 2007, le persone con sD che lavoravano risultavano appena il 10,5%. Un altro segnale importante riguarda le associazioni: sono raddoppiate le realtà che hanno nel proprio staff un referente professionale che segue da vicino in tutti i suoi aspetti la delicata fase dell'inserimento lavorativo. Certo è che quello della formazione rimane un limite determinante nella ricerca di lavoro: solo il 18% delle persone con sD risulta aver frequentato corsi ad hoc. E non solo, le difficoltà che insorgono nell'inserimento lavorativo di persone con sD riguardano aspetti differenti: sul piano specifico, si riscontra una innegabile mancanza di disciplina nell'adeguarsi al contesto lavorativo per quello che concerne gli aspetti gerarchici, nell'accettazione dei propri limiti e nei tempi di esecuzione. D'altro canto, le famiglie stesse, pur con tutte le buone intenzioni del caso, in molte situazioni si rivelano un freno non accettando l'essere adulti dei figli, limitandone anziché sostenendone gli spazi di autonomia, non attribuendo al loro impegno lavorativo il peso reale che invece ha, declassandolo alla voce "occupare il tempo", alla stregua del nuoto o della ginnastica. L'altra faccia della medaglia racconta peraltro di realtà aziendali inadeguate: mancano tutor preparati, i pregiudizi sono ancora dominanti, l'assunzione di una persone con sD viene vissuta facilmente come fastidiosa imposizione dettata dalle leggi e non come possibile risorsa innanzitutto lavorativa. In questo quadro, anche i "servizi" hanno la loro parte di responsabilità: lacune professionali, mancanza di strumenti di valutazione pensati per la disabilità intellettiva, monitoraggio troppo limitato nel tempo sono i primi nemici da vincere in vista di una nuova conoscenza della sindrome di Down.

Alberto Picci
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