03/12/2011
La Paz, Bolivia
Dal nostro inviato
Il desiderio di vivere l'imperativo evangelico dell'amore per il prossimo l'ha spinto in Sudamerica. Riccardo Giavarini è il Volontario dell'anno 2011. La scelta è stata fatta dalla Focsiv, la federazione italiana che riunisce gli enti cristiani di servizio volontario. E' possibile incontrarlo nella sua abitazione solo la mattina all'alba o a notte fonda. Altrimenti è fuori. In prigione, ad esempio.
Non esistono sale colloqui. «Se vuoi parlare con un detenuto lo fai chiamare da altri carcerati, detti “taxi”, in gergo, che in cambio di pochi boliviani, più o meno 50 centesimi di euro, corrono a cercarlo e lo accompagnano fin qui, alla grande inferriata d’ingresso». Benvenuti a San Pedro, il penitenziario più pazzo del mondo, nel cuore di La Paz. Riccardo Giavarini lì è di casa, conosciuto e rispettatoda prigionieri e secondini.
Riccardo Giavarini, primo da destra, durante un ricevimento in suo onore a La Paz (foto: Nino Leto).
Nato a Telgate, in provincia di Bergamo, il 25 aprile1955, da 35 anni
lavora in Bolivia, Paese che ha lasciato solo se costretto, come quando
la dittatura militare di Luis Garcia Meza lo inserì nella lista delle
persone ostili, da mettere a tacere. Era il 1980. Riccardo si salvò
scappando in Perù.
Dalle Alpi alle Ande, al fianco degli ultimi. Spinto da
una fede esigente, che non si sente a posto se non si rimbocca le maniche
pagando di persona, Riccardo ha deciso di spendersi per dar voce a chi
non ne ha, sia esso indio, prostituta o detenuto. Non è un caso se la
Focsiv l’abbia indicato come il “volontario
dell’anno”, premiandone - il 3 dicembre - l’attività svolta con un organismo federato,
ProgettoMondo Mlal. Giavarini, d’altronde, è un tipo tosto.
Riccardo Giavarini nel centro di Qalauma, il primo carcere minorile della Bolivia, voluto per offrire ai giovani detenuti percorsi educativi utili al reinserimento (foto: Nino Leto).
Difende le cause degli emarginati affrontando a viso aperto le contrarietà, a partire dalle capricciose variabili del clima che caratterizzano questa coloratissima porzione di pianeta, compresa fra il Tropico del Capricorno e il decimo parallelo Sud, dal caldo umido della foresta amazzonica all’ossigeno rarefatto di La Paz, la città più alta della Bolivia (va da 3.600 a 4 mila metri sul livello del mare), la più grande e la più importante, sede del Governo ma non la capitale, che è invece Sucre.
«A San Pedro mura spesse delimitano una bolgia dantesca», spiega Giavarini. «In quest’edificio vecchio di almeno due secoli, dovrebbero stare al massimo 700 detenuti. Ce ne sono il doppio, talvolta anche di più. Lo Stato non paga né vitto né alloggio. Ogni cosa ha il suo prezzo. Le celle, ad esempio: puoi affittarne o comprarne una. Nel secondo caso, i prezzi variano a seconda della sezione in cui ti trovi, si passa da 100 a 1.000 dollari. Famoso il caso del narcotrafficante che ha fatto entrare squadre di muratori per rialzare la sua cella trasformandola in una confortevole abitazione su tre piani, con tanto di Tv e vasca da bagno. Se hai soldi acquisti alcol, droga e prestazioni sessuali. Se no, ti arrangi: lavori per qualche detenuto ottenendo incambio ospitalità per la notte e un piatto caldo o dormi come puoi nei bagni, mangiando quel che riesci a elemosinare».
In linea di principio San Pedro è un passo avanti. «C’è un patto per cui la polizia sta fuori e i detenuti si autogestiscono; si è ritenuto che questa sia una buona strada per ridurre il tasso di violenza e aumentare la consapevolezza di chi sconta la pena», precisa Giavarini. «In realtà, vige la legge del più forte. Per tacere della corruzione. Il penitenziario sembra una città sudamericana e ne riproduce impostazione urbanistica, con i mille vicoli stretti, architettura artigianale, stratificata, e rapporti sociali segnati da divisioni dettate dal censo e dalla classe d’appartenenza».
Un problema su tutti ha allarmato Riccardo Giavarini. «A San Pedro vedi intere famiglie, padri, madri e figli. È una cosa giudicata normale. Come se non bastasse, lì vengono rinchiusi anche i ragazzi tra 16 e 21 anni che, invece, dovrebbero essere affidati ad appositi centri in grado di prepararne il reinserimento. Oggi sono 150: quello che non conoscono in fatto di crimine l’imparano a San Pedro». La tenacia di Giavarini e di ProgettoMondo Mlal ha però cambiato le cose. «Ci abbiamo messo 10 anni ma ce l’abbiamo fatta», sorride Riccardo.
Riccardo Giavarini nel centro Musasim Kullakita (foto: Nino Leto).
Il 22 febbraio, sull’altopiano che sovrasta La Paz, è stato inaugurato
il Centro per adolescenti Qalauma, la prima struttura del genere sorta
in Bolivia, realizzata anche grazie all’impegno della diocesi di El
Alto, della Conferenza episcopale italiana, della nostra Caritas e della
nostra Cooperazione allo sviluppo. In agosto sono arrivati i primi
detenuti.
«Ora sono 54, di cui tanti provenienti da San Pedro; la
maggior parte è qui per stupro, molti per reati legati alla droga», dice
il direttore, il colonnello Ernesto Michel Mendoza. «Attraverso il
lavoro, dall’agricoltura all’artigianato, tramite percorsi educativi
personali e collettivi, coinvolgendo il più possibile le famiglie,
laddove esiste ancora qualcuno che si preoccupa di loro, cerchiamo di
far maturare una nuova coscienza per evitare che una volta fuori tornino
a delinquere».
Non è tutto. A El Alto, Riccardo Giavarini è pure il
direttore del Centro Munasim Kullakita, che nella lingua del posto
significa: “Ama te stessa, sorellina”. «È un’opera sociale della Chiesa
dove accogliamo e seguiamo le prostitute bambine che vogliono cambiare
vita. Ora abbiamo una decina di ospiti, dai 13 ai 18 anni, una ha già un
figlio, un’altra è incinta. Costrette dalla povertà, dall’ignoranza
e, talvolta, da circostanze violente a prostituirsi per pochi euro,
vincono il disgusto annusando colla, cosa che le stordisce e alla
lunga“brucia” il loro cervello; qualcuna è sieropositiva». Nel Centro
riacquistano dignità e voglia di vivere. «Prevenire è meglio che curare.
Per questo giriamo i mercati parlando di questapiaga; la sera, infine,
una nostra équipe, in piena libertà e con la massima discrezione,
offre aiuto a chi vende per strada il proprio giovane corpo», aggiunge
Riccardo.
Riccardo Giavaraini con la moglie, Berta Blanco, e con tre dei cinque figli, nella loro casa a La Paz (foto: Nino Leto).
Infine, gli indios. Nel 1990 Giavarini sostiene la prima storica marcia dei Mosetenes. L’obiettivo è portare all’attenzione nazionale la questione indigena fino a ottenere la revisione della Costituzione. Nel 1996, la seconda marcia porta alla riforma agraria. È un successo anche la settima marcia promossa da numerose popolazioni indigene e conclusasi lo scorso ottobre a La Paz, con il Governo presieduto da Evo Morales, un indio aymara, costretto a fermare il progetto di una strada transamazzonica che avrebbe tagliato in due una lussureggiante riserva indigena.
Nella terra che ha per icone Simón Bolívar e il comandante Ernesto Che Guevara, quella di Riccardo Giavarini si afferma come rivoluzione non violenta, fatta coniugando le ragioni del diritto e quelle del cuore. «La forza me la dona il Signore. Non avrei potuto fare nulla senza il pieno appoggio di mia moglie, Berta Blanco, e dei nostri cinque figli. I premiati dovrebbero essere loro»
Alberto Chiara