Monsignor Vincenzo Pelvi: «Dalle impossibili condizioni di una “guerra giusta” alle possibili condizioni della pace»

11/04/2013
Monsignor Vincenzo Pelvi, arcivescovo Ordinario militare per l'Italia.
Monsignor Vincenzo Pelvi, arcivescovo Ordinario militare per l'Italia.

«Domani parto per il servizio militare in sanità. Dove mi manderanno? Forse sul fronte nemico? Tornerò a Bergamo, oppure il Signore mi ha preparato la mia ultima ora sul campo di guerra? Nulla so; questo solamente voglio, la volontà di Dio in tutto e sempre, e la sua gloria nel sacrificio completo del mio essere. Così e solo così penso di mantenermi all’altezza della mia vocazione e di mostrare a fatti il mio vero amore per la Patria e per le anime dei miei fratelli. Lo spirito è pronto e lieto. Signore Gesù mantenetemi sempre in queste disposizioni. Maria, mia buona mamma, aiutatemi ut in omnibus glorificetur Christus».


Chi scrive è il “capelàn” Angelo Giuseppe Roncalli, futuro papa Giovanni XXIII, nel “Giornale dell’anima”, il 23 maggio 1915. Non tutti sanno che Papa Giovanni XXIII, il Papa buono, prima di diventare Pontefice fu soldato caporale sergente dell’allora 73° Reggimento Fanteria dal 1901 al 1902 e tenente cappellano all’Ospedale militare di Bergamo dal 1915 al 1917. Di quegli anni racconta nel suo diario: «di tutto sono grato al Signore, ma particolarmente lo ringrazio perché a vent’anni ha voluto che facessi il mio bravo servizio militare e poi durante tutta la prima guerra mondiale lo rinnovassi da Sergente e da Cappellano». Credo che il servizio di cappellano contribuì a orientare quei sentimenti e quelle riflessioni espresse, poi, nella Pacem in terris del 1963. Sapeva bene, stando accanto ai feriti e ai caduti, che la società andava ordinata secondo quattro valori: verità, giustizia, solidarietà e libertà.

Il Pontificato giovanneo porta una novità nel contesto bellico di quel tempo e un orizzonte di speranza per la famiglia militare dei nostri giorni. In seguito al suo intervento nella crisi di Cuba, incoraggiato dalla speranza di un superamento della guerra fredda, egli avviò una sensibilità che proponeva un abbandono di ogni giustificazione della guerra, spostando la discussione sulla costruzione della pace dal terreno intellettuale a quello dell’azione pratica.

Lo sanno bene i militari italiani attenti a leggere negli avvenimenti l’intervento della Provvidenza. Infatti, le vicende disagiate e gloriose della vita insegnano ad avere il coraggio di accettare la storia, che significa in fondo amare il proprio tempo, senza vani rimpianti e mitiche utopie, convinti che ognuno ha una missione da compiere e che la vita è un dono ricevuto e una ricchezza che si deve donare, comunque siano le stagioni, serene o intricate, pacifiche o tribolate.

Nella realtà militare sta maturando la convinzione che la pace esige di tagliare il nodo alla radice, dichiarando inaccettabile anche la “guerra giusta”, perché la violenza armata è irrazionale, «bellum alienum est a ratione», e la «recta ratio», eticamente forte, sospinge su sentieri alternativi che esistono e sono stati sperimentati, anche se sempre da rivedere, aggiornare e motivare. La Pacem in terris parla, infatti, direttamente della pace in terra (o nelle terre), indica le vie e le condizioni che la rendono non soltanto auspicabile, ma possibile e doverosa, sia pure nella consapevolezza che il suo compimento ultimo e definitivo non sarà in questo mondo. La pace non è un sogno, non è un’utopia: è possibile passare dalle impossibili condizioni di una “guerra giusta” alle possibili condizioni di una “pace giusta”.


I nostri occhi devono vedere più in profondità, sotto la superficie delle apparenze e dei fenomeni, per scorgere una realtà positiva che esiste nei cuori, perché ogni uomo è creato a immagine di Dio e chiamato a crescere, contribuendo all’edificazione di un mondo nuovo. Pensieri, parole e gesti di pace creano una mentalità e una cultura di pace, un’atmosfera di rispetto, onestà e cordialità. Incoraggiamento fondamentale del cammino pastorale della Chiesa Ordinariato è quello di dire no alla vendetta, di riconoscere i propri torti, di perdonare per avanzare insieme verso la riconciliazione. È un lavoro lento, perché suppone un’evoluzione spirituale, un’educazione ai valori più alti, una visione nuova della storia umana che implica compassione, solidarietà, coraggio e perseveranza. «E’ più grande gloria uccidere le guerre con la parola, che gli uomini con il ferro ed è vera gloria acquistare la pace con la pace» (sant’Agostino).      


+ Vincenzo Pelvi,

arcivescovo

Ordinario militare per l'Italia

a cura di Alberto Chiara e Antonio Sanfrancesco
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