12/01/2012
Che cosa possono fare, nel concreto, i genitori (e più in generale i familiari) per favorire la competenza emotiva dei propri figli, che abbiamo visto essere così importante per la loro crescita individuale e sociale? Nel rispondere a questa domanda, senza la pretesa di voler essere esaustiva, faccio riferimento ai dati di numerose ricerche in cui si sottolinea l’effetto positivo del conversare con i propri figli facendo oggetto di discussione i loro stati interni, non focalizzandosi quindi solo sulle cause e sulle conseguenze delle loro azioni. Più specificamente, sembra che quanto più un genitore utilizzi un linguaggio psicologico emotivo (ovvero un tipo di vocabolario fatto di termini che rimandano agli stati interni emotivo-affettivi, come “voler bene”, “avere paura”, “essere gelosi”, ecc.) nelle conversazioni quotidiane con i propri figli, tanto più questi ultimi a loro volta sapranno usare un lessico emotivo in maniera appropriata e comprendere meglio il significato di espressioni come avere paura, provare gelosia, e così via. In altri termini, usare un linguaggio di questo tipo, nominando ciò che si prova, aiuta i bambini a conoscere e capire più a fondo ciò che sentono, a collegare le emozioni che provano agli antecedenti situazionali che le hanno elicitate, a spiegare e/o anticipare il comportamento degli altri a partire da ciò che sentono, pensano o desiderano in quel momento (Lecce, Pagnin, 2007).
Immaginiamo una scena molto comune di due fratelli che si contendono un gioco. Marco sta giocando con una macchinina che gli piace molto e, a un certo punto, il fratellino Luca gliela porta via bruscamente. Luca può facilmente aspettarsi che Marco reagisca mostrando tutta la sua rabbia, per esempio strappandogli a sua volta di mano il gioco o addirittura picchiandolo. Si tratta di un’occasione perfetta per un genitore, non solo e non tanto per intervenire come mediatore nel litigio fra fratelli (con frasi come “non si fa”, “non devi rubare il gioco a tuo fratello”, “non si picchia”, “chiedigli scusa”), quanto piuttosto per aiutare i bambini a riconoscere e comprendere le emozioni che provano, facendone oggetto di discussione e conversazione con loro. Un genitore potrebbe, per esempio, chiedere a Marco di dire come si è sentito, aiutandolo a dare un nome all’emozione che ha provato (“mi sono arrabbiato!”) e a Luca di spiegare che cosa lo ha spinto a prendere il gioco (“lo volevo io”). Arrabbiarsi e volere sono due stati interni, che per i bambini piccoli sono difficili da identificare proprio perché non direttamente osservabili, non tangibili.
Grazie al linguaggio, appunto, diventano meno aleatori, assumono un significato condiviso. In più, il bambino si sente capito, percepisce che la sua emozione in quel momento è stata accolta (“vedo che sei arrabbiato” o “hai ragione a essere arrabbiato”) e non negata (come quando diciamo “non devi arrabbiarti per così poco”). Lo aiutiamo a conoscere sé stesso, a riconoscere e dare un nome a tutte le emozioni e sensazioni che prova, a sentire cosa accade al suo corpo quando prova una certa emozione, a capire quali strategie può usare per regolare le emozioni quando sono molto intense, e così via. In altre parole, lo aiutiamo a diventare emotivamente sempre più competente. Tale compito, inoltre, è agevolato da quella che in psicologia viene definita “funzione riflessiva” o “mentalizzazione”, intesa come la capacità materna di pensare e rappresentarsi il proprio figlio come soggetto dotato di un suo mondo interno, fatto di desideri, aspettative, opinioni, credenze, emozioni (Meins, 1999).
Lo spunto per cimentarsi insieme ai nostri figli in questo tipo di conversazioni può venire, come abbiamo visto poco sopra, da una situazione reale contingente, ma anche, per esempio, dalla lettura di storie, a partire dalle quali l’adulto può attirare l’attenzione del bambino non tanto su ciò che accade ma sullo stato psicologico del protagonista (Ornaghi, Grazzani, 2009).
Sempre in ambito familiare, infine, non va sottovalutato il ruolo dei fratelli, e in particolare quello dei fratelli maggiori. La letteratura, infatti, ci riporta numerosi dati su come il fatto di avere dei fratelli con i quali parlare, scontrarsi, cooperare, costituisca un fattore predittivo positivo delle future capacità dei bambini di comprensione della mente propria e altrui (Perner e al., 1994). Sembra quasi come una sorta di “palestra” in cui il bambino sperimenta, si esercita, si allena e acquisisce competenze che poi utilizza al di fuori del contesto familiare nel quale vive.