Beni della mafia, parla don Ciotti

A 15 anni dalla legge per il riutilizzo sociale delle proprietà dei mafiosi sono tanti i risultati ottenuti. Ma sono ben 3.185 quelli ancora da assegnare. Ecco perché.

Uno schiaffo alla mafia - Intervista a don Ciotti (prima parte)

12/01/2012
Don Ciotti
Don Ciotti

Sono ben 3185 i beni confiscati alla criminalità organizzata ancora da destinare. Un numero enorme. Tra questi molti attendono di essere assegnati da diversi anni, ma la procedura è bloccata da vincoli bancari, ricorsi legali, cavilli burocratici e altri sistemi utilizzati dai mafiosi per evitare che le loro proprietà vengono usate a scopo sociale, come previsto dalla legge, da associazioni, gruppi, enti locali, realtà istituzionali come la protezione civile.

     Libera e il suo fondatore, don Luigi Ciotti, hanno avuto un ruolo fondamentale, 15 anni fa, per arrivare alla legge norma sulla confisca dei beni alla mafia e sul suo riutilizzo sociale: furono raccolte più di un milione di firme, nel 1995. E l’anno successivo il Parlamento varò la legge 109 del 1996, quella che consente ancora oggi di riportare alla legalità quelle proprietà e aziende ottenute con il crimine dai mafiosi.

     «Togliere il frutto dei loro crimini ai mafiosi e restituirlo alla collettività ha un valore enorme», dice don Ciotti. «Non solo perché colpisce la criminalità organizzata nei simboli del suo potere, ma anche perché quelle terre, quei palazzi, quelle case, quei villaggi turistici, quei poderi agricoli vengono liberati, riportati alla legalità, rimessi nelle mani della società civile a cui erano stati sottratti con la violenza e con il crimine. Quindi occorre tenere alta la vigilanza e rendere più efficace la legge. Le criticità sono ancora tante».

– Quali, don Ciotti?

«Ci sono fattori che rallentano o in alcuni casi ostacolano il pieno riutilizzo dei beni confiscati. Ad esempio, ricordiamo che la metà dei 3185 beni ancora da destinare sono gravati da ipoteche bancarie. Il capitale iscritto per le ipoteche supera i 600 milioni di euro (valore riferito a circa il 70% dei beni sotto ipoteca) e gli interessi iscritti superano i 300 milioni di euro. Sono ancora tanti i casi di occupazioni abusive dei beni, anche da parte dei familiari degli stessi mafiosi. Inoltre, le confische per quote indivise necessitano di un procedimento di separazione volontaria o giudiziale. Infine, c’è casistica di incidenti di esecuzione per la risoluzione di pendenze giudiziarie».

– Sul versante della normativa, che cosa non funziona?

«Questi quindici anni ci hanno visti impegnati a difendere a denti stretti i principi della legge n. 109 del 1996 contro diversi tentativi di snaturarla e di vendita incondizionata dei beni confiscati. Io dico che il divieto di vendita non è un dogma, ma deve rimanere un’ipotesi residuale di destinazione, dopo avere cercato tutte le strade possibili di riutilizzo sociale, nel rispetto della volontà di quel milione di cittadini che hanno messo la propria firma nel 1995. Ora è entrato in vigore il nuovo codice antimafia, dal 13 ottobre scorso, che ha introdotto alcuni miglioramenti, ma anche qualche aspetto preoccupante».

– Quale?

«Quello che riguarda i tempi della confisca. Prevede la perdita di efficacia del provvedimento se la Corte d’appello non si pronuncia entro un anno e sei mesi dal deposito del ricorso. Si tratta di tempi troppo ristretti: si rischia di vanificare il lavoro di mesi e anni di investigazioni giudiziarie e difficili indagini finanziarie e patrimoniali.

– C’è stato anche un recente forte taglio, di 10 milioni di euro, dei finanziamenti destinati al Fondo unico giustizia, dove confluiscono le somme di denaro sequestrate alla mafia…

«È un brutto segnale, proccupante. Perché tagliare proprio in un settore tanto delicato e cruciale?  Noi continuiamo a insistere che quel Fondo venga utilizzato per la gestione dei beni confiscati (prevedendo espressamente anche la loro ristrutturazione e riconversione), nonché per il risarcimento delle vittime di mafia e per il finanziamento dei programmi di protezione dei testimoni di giustizia».

– Invece, la nota dolente è il versante delle aziende confiscate alla criminalità. È così?

«Sì. Delle 1480 aziende confiscate dal 1982 ad oggi, circa 500 sono uscite dalla gestione perché chiuse. Altre 900 sono in gestione sospesa per fallimento, per richiesta di cancellazione del registro delle imprese e dall’Anagrafe tributaria, per liquidazione. Soltanto un centinaio di queste aziende sono state vendute o è stata avviata la procedura di vendita. Dieci sono state affittate così come prevede la legge».

– Perché con le aziende la riassegnazione non funziona?

«Dall’analisi di questi dati emerge che molte aziende pervengono nella disponibilità dello Stato ormai prive di reali capacità operative. Sono perlopiù nel settore delle costruzioni, del calcestruzzo, dei trasporti, del comparto turistico-alberghiero, della grande distribuzione, dei servizi e della sanità. Stiamo cercando una soluzione: Libera ha avviato, in collaborazione con Unioncamere e le Camere di commercio, la sperimentazione di un sistema di governance con strumenti e procedure in grado di fornire all’Agenzia nazionale una metodologia utile ad affrontare con efficacia i problemi legati al risanamento e allo sviluppo di un’azienda confiscata. Occorre individuare la migliore destinazione possibile, supportare la direzione e i lavoratori dell’impresa nell’acquisizione delle competenze e delle risorse necessarie ad assicurare la sopravvivenza e la redditività con una gestione orientata a criteri di efficienza. Va promossa l’opportunità di affittare le imprese confiscate a cooperative sociali di giovani, formando nuove professionalità e sviluppando le più innovative forme di imprenditorialità giovanile. Tra l’altro, Unioncamere ha previsto anche la creazione di un Fondo di garanzia nazionale per le cooperative che gestiscono i beni e le imprese confiscate».

Luciano Scalettari
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