06/06/2013
Roberto Saviano
Basta una battuta per entrare in
argomento con Roberto Saviano.
«Preferisci dell’acqua o una
Coca?», chiede. «Una Coca», rispondo.
E aggiungo: «Di quello dobbiamo
parlare, no?». Il suo nuovo libro
pubblicato da Feltrinelli, che da due mesi
domina le classifiche italiane, si intitola
Zero zero zero ed è una documentatissima,
quasi maniacale inchiesta sul
traffico mondiale di cocaina.
Si concede
uno dei suoi rari sorrisi e attacca, immergendosi
in quel pozzo senza fondo – l’immagine
è sua – in cui è precipitato mentre
conduceva indagini e scriveva...
Ci incontriamo in una libreria di Roma.
Lo annunciano gli uomini della scorta,
dai quali – sono passati sette anni
dall’uscita del libro-rivelazione, Gomorra,
e dalla condanna pubblica del clan dei
Casalesi a Casal di Principe che gli hanno
attirato una condanna a morte – non si separa
mai, né di giorno né di notte.
Arriva con un berretto, per schermirsi
dallo sguardo dei curiosi, e s’infila in un
ufficio appartato, sotto lo sguardo vigile
di un agente. «Sono sempre stato ossessionato
dalla capacità di guadagno dei
trafficanti», comincia. «Cercavo una metafora
letteraria per darne le dimensioni,
finché mi sono imbattuto in questi numeri:
se investo 1.000 euro nella Apple, una
delle aziende più innovative del pianeta,
dopo un anno mi ritrovo in mano 1.600
euro; se investo la stessa somma in cocaina,
dopo 12 mesi metto in tasca 182 mila
euro... A quel punto sono caduto in un
pozzo. Intuivo che, se non avessi studiato
a fondo il narcotraffico, non avrei compreso
nulla del mondo. Un’esagerazione,
lo so, ma per me è così. Qualche settimana
fa a Gioia Tauro hanno sequestrato
190 chili di coca: avrebbero fruttato 40
milioni di euro, che si sarebbero trasformati
in catene di supermercati, costruiti a prezzi imbattibili, con l’effetto di alterare la
concorrenza e far saltare il gioco. Ecco perché,
quando guardi in faccia il fenomeno della
cocaina, senti di essere dentro una storia
che ti permette di capire il mondo».
Zero zero zero è un appassionato tentativo di
smascherare i meccanismi del narcotraffico.
Mostratene con efficacia le mostruose fattezze
e la forza opprimente, Saviano suggerisce la legalizzazione,
anche se riconosce che «sul piano
morale, è un’opzione schifosa. Ma qualcuno
mi spieghi come si può combattere questo
dramma... D’altra parte, non mi sembra che i
politici abbiano voglia di affrontare la questione.
Fra i famosi 10 punti fondamentali del nuovo
Governo, non compare la parola mafia. Eppure
sono proprio i dati governativi a dichiarare
che l’economia più importante del nostro
Paese è quella criminale. “La mafia ha vinto,
ancora una volta”, ho pensato nell’istante
in cui quella clamorosa “svista” mi ha colpito
come uno schiaffo».
"Zero zero zero", il nuovo libro di Roberto Saviano.
Si appassiona dentro la sua giacca scura, che
per lui dev’essere come una divisa, e accompagna
le parole con ampi gesti delle mani, a rimarcarne
la gravità. E s’accalora ancora di più
quando gli faccio notare che il suo libro, in realtà,
non indica la legalizzazione come unica strategia
di contrasto alla cocaina, ma ne suggerisce
un’altra: la conoscenza, perché conoscere è
già cambiare. «La conoscenza è il primo strumento
non solo per disarticolare il narco traffico, ma anche per permettere a un Paese
di essere cosciente dei flussi che determinano
il suo destino. Mi spiego: se un ragazzo
italiano si accorge che, mentre le aziende non
producono più e i consumi ristagnano, continuano
a sorgere centri commerciali, condomini,
negozi, comincia a rendersi conto che dietro
c’è l’azione dei gruppi criminali che riciclano
denaro, strappano appalti, drogano il mercato.
Se lo sai, sei in grado di capire il tuo destino,
sei vaccinato. Se lo sai, ne parlerai, costruirai
indignazione, educherai tuo figlio...».
Saviano introduce un altro motivo di speranza:
«Papa Francesco, per la prima volta, ha
citato il dramma del narcotraffico, reso consapevole
dalla sua provenienza, l’Argentina,
parte di un Continente che sta soffrendo
questa piaga in maniera terribile. È un’occasione
storica! Vibrano ancora nel mio cuore le parole
di Giovanni Paolo II ad Agrigento: ero piccolo,
eppure ricordo ancora il vento che soffiava,
quel momento incredibile... Che la lotta alla
mafia e al narcotraffico possa tornare centrale
grazie a un Papa che conosce questo dramma!».
E il suo pensiero su Puglisi, il prete da poco
beato? «Senza sentirmi retorico, da meridionale,
da persona che ha vissuto in quelle terre,
posso dire che la Chiesa è stata la vera avanguardia
contro le mafie. Un’altra parte è stata,
e temo ancora sia, connivente e fragile, ma a
porsi in prima linea contro i clan è stata proprio
la Chiesa, quella che ho visto da vicino,
quella di molti sacerdoti sconosciuti che in tante
zone del Sud sono l’unica presenza contro i
poteri peggiori. Il mio sogno? Don Puglisi e
don Diana santi. È difficile emulare un santo,
quando è l’uomo del miracolo. Santificare
questi due sacerdoti significa invece creare
la sintassi della nuova santità come impegno
quotidiano, empatia, solidarietà».
Ascoltandolo, si dimentica facilmente che
si è di fronte a un ragazzo di 33 anni, autore
di uno dei più clamorosi casi editoriali dell’ultimo
decennio, esposto di continuo a un doppio
sguardo, quello della gente che lo acclama
come un guru o, all’opposto, come un falso,
e quello degli agenti della scorta. Viene
spontaneo chiedergli come è nata, in lui, la
passione per temi così duri, la camorra prima
e la cocaina poi, quell’abisso di cui lui
stesso parla in Zero zero zero. «Non dalla famiglia:
mia madre è geochimica, mio padre
medico, il ramo materno è del Nord, quello
paterno del Sud... È stata la geografia. Il mio
sentirmi a disagio dove vivevo, l’inclinazione
alla malinconia mi hanno indotto a scrutare
nelle dinamiche che mi rendevano infelice.
Avevo vicino un mare meraviglioso, a Castel
Volturno, ed era stato reso una fogna dai clan.
Il lavoro era un miraggio. La dignità sembrava
fondata solo sulla capacità di intimidire...
Non ne potevo più. Ho trasformato i miei stati
d’animo nella volontà di capire l’origine di
tali assurdità, nell’ambizione di dire: io sono
diverso, racconterò a tutti la verità. Di questo
hanno paura i mafiosi: non che la verità venga svelata, ma che venga diffusa. Ed è la ragione
per cui non ho paura di espormi sui
giornali e in televisione».
Zero zero zero si chiude con un toccante ringraziamento
alla famiglia: «Provo un grande
senso di colpa. Io, almeno, pago il prezzo del
mio lavoro, e ne faccio vita attiva. Loro ne subiscono
solo gli svantaggi. Sono andati a vivere
altrove, hanno dovuto nascondere la propria
identità. Risentono degli odi destinati a me,
sono feriti dalle battute sarcastiche: “Ecco
che arriva lamammadell’eroe, la zia del superman
napoletano”». Saviano vorrebbe invece
essere considerato semplicemente uno scrittore,
«né un simbolo né un martire né un eroe:
l’eroe è morto e non sbaglia, io sono vivo e voglio
poter sbagliare».
Tornando indietro, ripeterebbe
gli stessi passi? «A volte ci penso, e mi
faccio anche un po’ pena. Quello che più mi dispiace,
è che è accaduto tutto troppo presto, mi
sono state negate le esperienze tipiche della
mia età. Ne è valsa la pena? No. È una risposta
codarda, ma la più vera. Rifarei tutto quello
che ho fatto, ma con più prudenza. Scriverei
Gomorra in forma più raccontata, eviterei un
attacco diretto come quello di Casal di Principe...
forse. Non rinnego nulla e continuerò la
mia battaglia, ma tornando indietro…».
A infondergli forza sono i ragazzi più giovani:
«Arrivano alle presentazioni accompagnati
dai genitori, come se andassero al concerto
di Vasco Rossi. Sono liberi da ideologie,
privi del livore che ha divorato la mia
generazione, aperti alla possibilità di inventare
un mondo nuovo... Mi raccontano che,
spinti dai miei libri, vogliono diventare magistrati,
poliziotti, giornalisti... Metterei il mondo
nelle loro mani. È bello, e se a uno scrittore
accadono cose come questa...».
Paolo Perazzolo
a cura di Paolo Perazzolo