Cinquant'anni di toghe rosa

Compie mezzo secolo la legge che ha ammesso le donne alla magistratura. Livia Pomodoro e Paola Di Nicola raccontano la loro esperienza in un ruolo rimasto per secoli roba da uomini

Alla pari nei numeri, un po' meno nei gradi

09/02/2013
Inaugurazione dell'anno giudiziario (Ansa).
Inaugurazione dell'anno giudiziario (Ansa).

La storia delle donne in magistratura è storia di una strada a lungo negata. E, forse per questo, in qualche modo di una strada segnata, dal pregiudizio prima, dalla determinazione di smentirlo poi. Perché la legge che ha consentito alle donne, da sempre escluse dalla giurisdizione, di accedere per la prima volta al concorso per la magistratura è arrivata tardi: il 9 febbraio 1963, esattamente cinquant'anni fa. «La donna» si legge all'articolo 1 della legge 66/1963 «può accedere a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la Magistratura, nei vari ruoli, carriere e categorie, senza limitazione dimansioni e di svolgimento della carriera, salvi i requisiti stabiliti dalla legge». Solo le forze armate sono arrivate dopo.


Prima di quel giorno le donne hanno fatto in tempo ad accedere ai pubblici uffici (1919), a diventare medici, avvocati, a votare per il referendum tra Repubblica e Monarchia (1946), a entrare nell’assemblea costituente e poi in Parlamento, persino a vestire, seppure con una certa limitazione nelle funzioni, la divisa della Polizia di Stato (1959). La toga però no. Per quella ci sono volute quelle tre parole nero su bianco «compresa la magistratura». In mezzo secolo le donne, quelle di cui abbiamo imparato a riconoscere i volti per i processi finiti in cronaca e quelle - molte di più - che lavorano nell’ombra tra procure e tribunali, però hanno pareggiato quasi il conto con i colleghi maschi: sono oggi oltre 4.000 e coprono il 46% dell’organico. 

Ma è una quasi parità finora numerica, non ancora di peso specifico, perché nelle posizioni direttive e semidirettive le donne sono ancora in netta minoranza. Anche se nei numeri complessivi il sorpasso è vicino. Ai primi concorsi le donne non toccarono il 5% oggi vincono con percentuali nettamente superiori ai maschi, segno che quella funzione – di cui qualcuna è diventata anche simbolo nel mondo per aver fronteggiato con successo e rigore mafiosi tra i più pericolosi - l'hanno voluta con caparbietà e capacità.

Probabile che le ultime arrivate non facciano più caso a una conquista per loro acquisita e dunque lontana, forse neanche sanno che alcune delle colleghe entrate con il primo concorso sono ancora in servizio. Forse non si pongono, le ultime, più il problema di che cosa abbia voluto dire  recuperare velocemente (e controcorrente) lo svantaggio iniziale, forse non immaginano neppure che cosa abbia significato farsi largo contro il pregiudizio che ancora negli interventi dell’Assemblea costituente riteneva la donna inadatta a giudicare, un pregiudizio che si esprimeva con parole così: «Nella donna prevale il sentimento sul raziocinio, mentre nella funzione del giudice deve prevalere il raziocinio sul sentimento». 

Sarebbe naturale credere che quel pregiudizio sia stato scalzato dai fatti, dalla constatazione del tutto evidente, anche nella quotidianità della cronaca, che le capacità professionali non hanno genere. Eppure accade ancora di sentire imputati (e condannati) più o meno illustri mettere in discussione una sentenza perché emessa da un collegio di donne. Anche se la cultura di un Paese civile e democratico non lo dovrebbe accettare.

Elisa Chiari
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