30/05/2010
Uno dei manifesti del Giro d'Italia 2010, partito dall'Olanda.
Il Giro d'Italia 2011 ha occupato molti pensieri durante lo svolgimento del Giro d'Italia 2010. Perché, mentre la corsa rosa partiva in Olanda e ci restava per tre tappe, all'insegna della raccolta di denaro ma anche della esplorazione, della curiosità geografica, si tendeva a parlare di un progetto, per la prossima edizione, che quantomeno avrebbe un valore simbolico enorme, anche se sempre al denaro si dovrà pensare: e cioè una puntatina negli Stati Uniti, a Washington, a dire che l'Italia ha centocinquant'anni e vuole farlo sapere in giro (viste anche le difficoltà che pare avere a farlo sapere a una parte di se stessa), in una città poi importante, specialissima.
E poi, finita a Verona la corsa 2010 che ha “scartato” tutte le grandi città italiane, si è detto, ridetto, in un certo senso benedetto l'annuncio del Giro d'Italia che, sempre per i famosi centocinquant'anni dell'Unità, arriva a Torino, la prima capitale, ritrovando anche il contatto con la metropoli, dopo che il circuito fisso Giro-Milano è andato in tilt lo scorso anno. L'idea di un ciclismo europeo che, sommerso dal grande calcio, cerca vie speciali e nuove di affermazione, cerca vetrine, ribalte eccezionali fuori dei suo stessi confini geoeconomici, non è nuova. Il Tour progetta il Canada, dove una bella fetta degli abitanti è di lingua francese. Il Giro pensa agli Stati Uniti delle nostra grande emigrazione.
Il problema è di eseguire azioni mirate: commerciali, anche, non è peccato, ma non gaglioffe, gratuite, troppo acrobatiche. Il conflitto in salsa olandese fra il Giro che quest'anno è partito in Olanda e il Tour che fra pochi giorni lo imita, sempre Olanda ma Rotterdam al posto di Amsterdam, è abbastanza ridicolo. Certo che appare singolare il destino prossimo venturo del ciclismo. Ha davanti due strade, per non lasciare che il calcio lo anneghi. Ripiegarsi all'interno di se stesso, riesumare la sua antica poesia, parlare di sofferenze, di dolori, di lacrime lustrali, insomma farsi piccolo per restare poetico, anzi per apparire, sempre più poetico. Oppure rivolgersi all'esterno che si chiama mondo, respirare ampio e forte e lungo prescindendo dai campioni che ha o che non ha.
Gian Paolo Ormezzano