20/09/2010
Kigali. Il senatore Alfredo Mantica, sottosegretario agli Esteri del Governo italiano.
Kigali, Ruanda
«Se noi continuiamo a considerare l’aiuto ai Paesi poveri un dono e non un investimento, la situazione non cambierà. Perché se è un dono, lo si fa finché ci sono i soldi. In epoca di crisi economica i doni si riducono. È esattamente quello che è successo in questi ultimi due anni». Il senatore Alfredo Mantica, sottosegretario agli Esteri del governo Berlusconi, è un profondo conoscitore delle “cose africane” che segue – anche per passione personale, oltre che per impegno politico – da molti anni. Lo “intercettiamo” a Kigali, nel corso di una rapida visita che tocca, oltre al Ruanda, il Kenya e il Mozambico.
Sul raggiungimento degli Obiettivi del Millennio non è ottimista, riguardo all’impegno italiano. «Ma non solo perché oggi siamo fanalino di coda fra i Paesi donatori, fatto che è innegabile. Anche perché se guardiamo agli ultimi 20 anni, e quindi a prescindere dai colori dei governi, la percentuale dell’aiuto pubblico allo sviluppo si è sempre assestata intorno allo 0,20 del Pil. C’è stato un unica, piccola, crescita: il secondo Governo Prodi un anno ha portato la percentuale dei fondi verso lo 0,30. Per il resto, governi di destra e di sinistra hanno sempre destinato meno, con oscillazioni dello 0,01 o 0,02 in più o in meno».
- Quale conclusione ne trae?
«Che è segno di un problema strutturale e di impostazione. La logica rimane quella del dono e dell’emergenza, che non porta cambiamenti significativi nella politica di cooperazione. Anche le Regioni e la cooperazione decentrata non hanno portato i risultati sperati. La nota positiva è il dono privato: gli italiani hanno una forte propensione ad aiutare realtà, Ong e missionari che conoscono e di cui si fidano».
- Le Ong italiane lamentano una continua riduzione di fondi…
«È vero. Ma è anche vero che abbiamo in Italia più di 170 organizzazioni non governative. Troppe, e troppo piccole. Quello che vediamo è che diamo all’Unione Europea molto più di quanto le Ong riescono poi ad ottenere dai fondi della UE, segno che le nostre Ong non riescono a confrontarsi adeguatamente con i grandi colossi europei della cooperazione».
- Cosa deve cambiare per ottenere risultati significativi in vista del 2015?
«In sede europea abbiamo aperto una discussione sul metodo per raggiungere gli Obiettivi del Millennio. Il Paese che ha ottenuto i maggiori risultati in questo senso è stata l’India, che tuttavia non deve certo i propri successi nella lotta alla povertà (ha ridotto di 200 milioni il numero di poveri) all’aiuto dei Paesi ricchi. Allora mi chiedo: dobbiamo parlare di aiuto allo sviluppo o semplicemente di sviluppo? È creare sviluppo anche costruire un ponte o una strada, oppure no? Inoltre, l’aiuto lo devo dare a Paesi che hanno stabilità politica e democratica, se no si rischia davvero di buttare i soldi. Solo con governi che funzionano si può lavorare in partnership: allora sì che fare un ospedale inserendolo nel piano sanitario nazionale di quel Paese è un contributo importante di cooperazione allo sviluppo».
- Un altro problema è che negli anni è cresciuta sempre più la cooperazione d’emergenza, e si è ridotta quella che fa sviluppo.
«Mi chiedo se questo ha senso. L’emergenza ormai assorbe la gran parte della cooperazione. Viceversa, ritengo molto significative le esperienze di microcredito, in particolare quanto è a favore delle donne. Su questi fronti, cioè il microcredito, l’educazione, la formazione professionale, i progetti che favoriscono l’emancipazione femminile, le Ong svolgono un ruolo molto importante».
- Quale considera più grave fra le “colpe” europee?
«La seguente, che cerco di spiegare con alcuni esempi. Se decido come Unione Europa che per fare il cioccolato mi serve la meta del cacao rispetto a prima non sto prendendo una decisione che riguarda solo gli europei, ma anche i produttori africani, che vanno alla fame. Se faccio operazioni di dumping sul cotone, è inutile che vada a insegnare agli africani a coltivare meglio il cotone. E se faccio una norma per cui per entrare in Europa le banane devono avere determinate dimensioni, non mi posso poi scandalizzare del crollo del prezzo di mercato della banana africana, che essendo piccola non entra più nel nostro Continente».
- Aiuto allo sviluppo è quindi anche consentire ai produttori africani di stare sul mercato a pari condizioni?
«Esatto. Lo sa che in Africa occidentale si è presentato alle elezioni il “partito del pollo”? Sa perché si chiamava così? Per denunciare che dall’Europa arrivano le parti del pollo che noi non mangiamo, e che vendiamo laggiù a prezzi bassissimi. Il “partito del pollo” chiede il pollo intero. Chiede che non si facciamo più queste operazioni di dumping con i nostri scarti. Riflettere sul metodo dell’aiuto è anche questo: i Paesi in via di sviluppo vanno messi in condizione di commerciare in condizioni di pari opportunità. Questo non è meno aiuto che intervenire nelle emergenze».
Luciano Scalettari