02/11/2011
Daniel Levty.
Un bel problema, la democrazia. Daniel Levy le stanze della politica d’Israele le ha visitate tutte: consigliere politico del ministro della Giustizia Beilin (2000-2001), nell’ufficio di Ehud Barak quando questi era primo ministro, nella squadra di negoziatori dell’accordo “Oslo 2” quando il premier era Rabin. Ma non gli manca il gusto dell’opinione controcorrente, maturato forse alla fine degli anni Ottanta, quando era il responsabile dell’ufficioAnti-razzismo dell’Unione degli studenti di Cambridge.
Per cui, è proprio da lui dire che «la situazione in Israele, oggi, è simile a quella che si vede in Italia».
– E cioè?
«Ha visto le grandi manifestazioni a Tel Aviv? Le 400 mila persone in corteo? Da noi, come da voi, si avverte un fermento, un vento di cambiamento. La gente scende in strada, chiede un cambio di rotta, ma come e quando questo avverrà, e a quale alternativa farà strada, è per ora impossibile dirlo».
– D’accordo con l’analogia. Ma tutto questo in che modo riguarda l’eterno conflitto tra Israele e i palestinesi e la mossa di Abu Mazen di chiedere all’Onu il riconoscimento dello Stato di Palestina?
«Israele, secondo me, ha ceduto a una sorta di “statolatria” in omaggio alla quale ha perso alcuni dei suoi valori fondativi. Nel Paese, gli spazi di democrazia si sono piano piano ridotti. E questo è pericoloso soprattutto nella situazione attuale, quando cioè nel resto del Medio Oriente la democrazia fa qualche piccolo passo avanti».
– Più democrazia non è un vantaggio?
«Non necessariamente. Prendiamo la crisi con la Turchia: essa è stata in gran parte causata dal fatto che anche il premier turco Erdogan ora deve fare i conti con un’opinione pubblica che pensa in proprio e a cui deve render conto. In un Medio Oriente che, in un modo o nell’altro, sta cambiando, diventa sempre più difficile per Israele garantire la propria sicurezza con le vecchie strategie e nello stesso tempo essere accettato dal resto del mondo. Il che significa: per il bene di Israele, bisogna risolvere il problema dei palestinesi. Cioè, affrontare seriamente la questione dello Stato».
– Come giudica la mossa palestinese di chiedere il riconoscimento dell’Onu?
«Molto astuta, anche se non produrrà niente. Proprio per questo, la vera sfida per i palestinesi arriva adesso: controllare l’inevitabile delusione della gente e impedire esplosioni di violenza. Da questo punto di vista è decisivoil processo di riconciliazione tra Al Fatah eHamas, tra Cisgiordania e Gaza. E se Hamas non deciderà di rispettare le leggi internazionali, tutto sarà inutile. Anzi, peggio».
– Detto questo di Hamas, pare difficile che Israele possa cambiare le proprie strategie in tema di sicurezza...
«Israele può fare molte cose. Potrebbe, per esempio, bloccare o ridurre gli insediamenti. Potrebbe, più realisticamente, ritirarsi dietro la Barriera di protezione, quella che voi chiamate Muro, e poi stabilire un “corridoio” di cinque anni per risolvere il problema. Con ogni probabilità non farà nulla, perché la maggioranza politica è per la linea dura. Una cosa però mi pare sicura: se i palestinesi lanciano una mobilitazione pacifica per i diritti civili, sull’esempio della cosiddetta Primavera araba, e riescono appunto a mantenerla pacifica, l’isolamento di Israele non farà che crescere. Con grave danno per il Paese».
– E quindi, su che cosa possiamo puntare?
«Al momento possiamo soprattutto sperare in un cambio di mentalità degli israeliani. E come dicevo prima, qualche segnale in questo senso sta già arrivando. Anche se questi non sono gli anni Novanta, l’idea di un quick fix, una soluzione rapida, non è più sostenibile. Non ci crede più nessuno».
Fulvio Scaglione