Così si è arrivati al bis di "Re Giorgio"

20/04/2013

“Giorgio Napolitano, Giorgio Napolitano, Napolitano..” sono le 17,45 di sabato 20 aprile quando la presidente della Camera, Laura Boldrini, comincia a leggere i nomi scritti sulle schede della 6° votazione per l’elezione del Presidente della Repubblica.

Il nome di Napolitano risuona per 738 volte e alle 18,46 c’è la proclamazione ufficiale di una rielezione che non si era mai verificata nella storia della Repubblica. Un evento storico. In aula scoppia un lungo applauso, mentre in piazza risuonano i fischi e gli slogan arrabbiati dei militanti grillini e dei gruppi neofascisti che gridano al “golpe” e invocano una inquietante “marcia su Roma”.

La svolta che ha portato alla riconferma di “re Giorgio” è avvenuta nella mattinata di sabato, quando prima Pierluigi Bersani, poi Silvio Berlusconi, Mario Monti e infine i presidenti delle Regioni sono saliti al Quirinale per chiedere a Napolitano di accettare la rielezione. Il Presidente, che nelle ultime settimane si era sempre dichiarato contrario a un prolungamento del settennato, ha accettato “di dover offrire la disponibilità che mi è stata richiesta” con “il sentimento di non potermi sottrarre a un’assunzione di responsabilità verso la nazione confidando che vi corrisponda una analoga collettiva assunzione di responsabilità”.

In questo modo Napolitano ha portato le forze politiche fuori dal vicolo cieco nel quale si erano cacciate dopo le prime cinque votazioni. La svolta drammatica si è avuta con il “cedimento strutturale” del Partito democratico, con le dimissioni annunciate del segretario Bersani e del presidente Rosy Bindi nella serata del 19 aprile, dopo la clamorosa bocciatura di Romano Prodi. A quel punto il Pd non era più in grado di presentare un candidato con la garanzia di farlo eleggere ormai dilaniato da guerre per bande, franchi tiratori e, come li ha definiti Bersani, “traditori” .

Il prodiano Gozi ha parlato addirittura di “criminali”. Nel giro di pochi giorni il Pd ha praticato un suicidio politico clamoroso per una forza politica che fino a pochi mesi fa sembrava marciare con il vento in poppa verso una sicura e netta vittoria elettorale. Gli eventi hanno avuto uno sviluppo drammatico. Il partito di Bersani, dopo aver vinto con un margine ristretto le elezioni politiche di febbraio e dopo il fallimento delle trattative per la formazione di un nuovo governo, ha comunque rivendicato il diritto di presentare una rosa di candidati per il Colle. Prima il Pd punta a una scelta condivisa con il centrodestra. Il primo nome indicato per il Quirinale è quello di Franco Marini, ex leader della Cisl ed ex presidente del Senato.
Il 17 aprile il Pd e il Pdl concordano sul nome di Marini, ma tra la base dei militanti del Pd comincia a montare la rivolta. Anche Matteo Renzi non digerisce il nome di Marini e invita i suoi fedelissimi a votare contro. L’irritazione dei militanti del Pd diventa palese quando al momento del primo scrutinio si salutano affettuosamente in aula Pierluigi Bersani e Angelino Alfano. L’immagine, catturata dai fotografi, finisce subito sula rete e sui giornali e diventa simbolo di un presunto “inciucio”.
Al primo scrutinio Marini prende solo 521 voti, molto al di sotto dei due terzi necessari nei primi tre scrutini. Nella tarda serata del 18 aprile l’assemblea dei grandi elettori del Pd decide di puntare su un nuovo candidato: Romano Prodi. Il sostegno per Prodi sembra unanime e anche Sel abbandona la candidatura di Rodotà per votare l’ex premier dell’Ulivo.

Il nome di Prodi, invece, viene considerato uno schiaffo da parte del centrodestra, che sceglie di non votare. Mario Monti invece lancia la candidatura del ministro dell’interno Cancellieri e chiede alle grandi elettrici di tutti gli schieramenti di sostenerla. La terza votazione, la mattina di venerdì 19, è interlocutoria, all’insegna delle schede bianche. Nella quarta votazione, il pomeriggio, il quorum scende a 504 voti. Prodi avrebbe i numeri per farcela, ma durante lo spoglio ci si accorge che Prodi non sale. Alla fine prenderà solo 495 voti. All’appello ne mancano 101.

Gli esponenti del centrodestra esultano. “Basta”, sbotta Gasparri, “questo non è il congresso del Pd”. I grandi elettori del Pd hanno i volti devastati. Nel “transatlantico della Camera comincia la caccia i “traditori”, girano sospetti sui dalemiani e gli ex popolari, Vendola garantisce che i suoi hanno votato tutti per Prodi. Il partito è allo sbando. A tarda sera arrivano le dimissioni della Bindi e di Bersani.
Il Pd, o quel che ne resta, non ha più nomi spendibili e si spezza l’alleanza con Sel, decisa a insistere su Rodotà. Per assicurare all’Italia un presidente non resta che votare Napolitano, una garanzia di saggezza e di equilibrio in uno dei momenti più difficili della storia repubblicana.

Roberto Zichitella



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a cura di Francesco Anfossi e Fulvio Scaglione
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