21/06/2010
Eupalla, la dea similclassica e perciò capricciosa, che, secondo Gianni Brera, sovrintende all'arte pedatoria, sta giocando a pallone con il mappamondo e tira sempre dalla stessa parte. Almeno così pare, a giudicare da questo Mondiale imbizzarrito, che rimescola gli equilibri, portandoci indietro di decenni e in basso a sinistra rispetto al nostro planisfero eurocentrico anni Duemila.
Inghilterra, Italia, Spagna, Francia scrutano invano la volta celeste a caccia della stella polare e perdono l'orientamento. La stella polare non c'è. Al Mondiale 2010 ci si orizzonta con la Croce del Sud non solo perché stiamo in Sudafrica, ma perché è a quel cielo che guardano tutti, o quasi, quelli che fin qui non hanno perso la bussola: in cinque gironi su otto, fanno capolino ai vertici sei squadre latinoamericane: nell'ordine Uruguay (A), Messico (A), Argentina (B), Paraguay (F), Brasile (G), Cile (H). Fin qui la geografia che però - come succede sempre e ovunque, tranne che sui banchi di scuola dove tutto è diviso - ha dentro tanta storia: storia di un calcio denso e glorioso.
Vengono in mente nomi carichi di gloria, leggenda e fantasia: Pelè, Garrincha (brasiliani), Sivori, Maschio, Angelillo, Di Stefano (argentini) e, non ultimo, Schiaffino, il nome più fulgido della storia tra i pedatori uruguayani, ch'erano stati due volte nel 1930 e nel 1950 campioni del mondo e che fino a tutti gli anni Settanta, dal 1930, erano stati a giocarsela ai piani alti del Mondiale che avanzava. E poi torna il Cile, a vedersela con una Svizzera, recentemente spenta ma (anche lei) d'antico blasone. Il Cile in casa, nel 1962, avanzò fino in semifinale per poi consolarsi con la finalina. Non se ne sentiva parlare quasi da allora. Se, in quel che si salva dell'Europa, accanto all'Olanda al posto del Portogallo ci fosse l'Ungheria, avremmo la netta sensazione, togliendo le date e lasciando i luoghi, di viaggiare nel calcio di un'altra epoca.
L'epoca in cui questa Italia oggi così spenta andava a cercarsi, con quelli che allora si chiamavano oriundi, il potenziale offensivo che neanche all'epoca aveva tanto di suo. Ma non vale chiedersi come sarebbe se Di Maria, Mascherano, Messi, Milito, Forlan, Gargano, Veron e altri nomi sparsi tra le maglie sopra citate, avessero pescato indietro nell'albero genealogico una scusa - magari tortuosissima - per rifare la rotta degli emigranti al contrario.
Non vale perché oggi, se avessero l'età per andare in campo, con ogni probabilità, anche Sivori-Maschio-Angelillo, gli angeli con la faccia sporca, giocherebbero (Maradona permettendo) con la maglia a righe verticali bianche e azzurrine. E avrebbero ragione.
Il calcio è tornato dove si fa danzare il pallone ed è laggiù che si scrivono, al momento, le storie più belle. L'aedo c'è. Si chiama Edoardo Galeano, è uruguayano, per mestiere fa lo scrittore. Da quando sono cominciati Mondiali ha messo un cartello sulla porta di casa: «Cerrado por fùtbol». Chiuso per calcio. E chissà che pagine stanno nascendo là dentro.
Elisa Chiari