13/10/2010
Pochi posti di lavoro danno un’idea di fatica e di buio come la miniera, pochi danno quel senso di stare appesi alle viscere della terra in balia dei suoi capricci. Poche pagine danno l’idea di soffocamento che esce dalle cave di sabbia descritte da Giovanni Verga. Pensi ai cunicoli, alla fame di aria. Anche per questo non è facile immaginare i giorni, non uno o due, ma 68, dei 33 minatori rimasti in trappola nella pancia del Cile, a 622 metri sotto terra.
C’era aria è vero, e un contatto con l’esterno, e questo qualcosa ci dice di quanto benedetta sappia essere talvolta la tecnologia vituperata, ma un conto è sapere che si potrebbe anche farcela- ammesso che tutto funzioni -, altro è crederci per 1.632 ore senza cominciare a morire. Ce la stanno facendo, anche se per gli ultimi le ore sono di più, serve un giorno e mezzo più o meno, per portarli in superficie tutti, a bordo di una sorta di gabbia cilindrica, calata apposta nella terra con tutti i rischi del caso.
Mario Sepulveda, elettricista, 39 anni, ha raccontato così l’alternanza di disillusione e speranza in 68 giorni di buio: «Stavo con Dio e con il diavolo, però mi sono aggrappato alla mano di Dio e in nessun momento ho dubitato del fatto che Dio sarebbe venuto a salvarmi». Già perché se dubiti muori. Perché i fantasmi arrivano, anche per chi guarda: abbiamo imparato a conoscerla la speranza che si spegne, l’abbiamo imparato con Alfredino caduto nel pozzo e mai risalito, nonostante gli sforzi, con i marinai del sottomarino Kursk destinati a respirare tutto l’ossigeno rimasto in una lenta terribile agonia collettiva.
Ecco questa, forse, nella tragedia di chi vive, è la novità che rende le miniere degli ultimi 30 anni diverse da quelle di Marcinelle, sono identiche nella tragedia, ma diverse perché sono di tutti, perché stanno sotto un gigantesco riflettore che scruta l’anima alla trivella che scava come alla gente che prova a sopravvivere. L’hanno capito anche loro là sotto che il rischio adesso è che si faccia spettacolo della salvezza, come lo si è fatto della tragedia, che la verità drammatica, violenta, misera della miniera diventi un reality, con il guardonismo deteriore che questo comporta, con il rischio di sviare l’attenzione dalla sostanza del problema.
Mario Sepulveda l’ha detto chiaro, uscendo: «Non trattateci da star, siamo sempre Mario il minatore». Mario che chiede, vorrebbe e avrebbe diritto a una vita e a un lavoro a condizioni migliori, senza uscire di casa ogni volta con l’incubo di restare inghiottito per sempre dal buio. E con lui tutti i Mario del mondo.
Dossier a cura di Elisa Chiari e Pino Pignatta