19/09/2012
Un momento del Concilio Vaticano II: la solenne messa concelebrata da diversi padri conciliari nella basilica di San Pietro.
Per portare a compimento la riforma interna della Chiesa basterebbe trarre le conseguenze pastorali, che derivano dalle acquisizioni teologiche del Concilio: 1) «spirito collegiale » nel rapporto tra gerarchia e le altre componenti ecclesiali; 2) rivalutazione del ruolo proprio dei fedeli laici e della «laicità»; 3) formazione dei fedeli a una fede adulta.
Un gruppo di vescovi commenta il dibattito conciliare.
1. «Spirito collegiale» nel rapporto tra Gerarchia e le altre componenti ecclesiali.
Una prima conseguenza delle acquisizioni teologiche del Concilio è il superamento di ogni forma di «clericalismo»: nella Chiesa non vi sono cristiani di serie A (il clero) e di serie B (i laici), ma «comune è la dignità dei membri per la loro rigenerazione in Cristo, comune la grazia dei figli, comune la vocazione alla perfezione. Nessuna ineguaglianza, quindi, in Cristo e nella Chiesa per riguardo alla razza o nazione, alla condizione sociale o al sesso. Quantunque alcuni per volontà di Cristo sono costituiti dottori e dispensatori dei misteri e pastori per gli altri, tuttavia vige fra tutti una vera uguaglianza riguardo alla dignità e all’azione comune a tutti i fedeli nell’edificare il corpo di Cristo».
La gerarchia non è al di sopra, ma all’interno del Popolo di Dio; l’autorità nella Chiesa non è burocrazia o amministrazione, ma è “servizio e testimonianza”. Lo stesso primato del Papa va visto insieme all’ufficio d’insegnare che Cristo affida ai vescovi. Il Successore di Pietro non è un semidio, posto al di sopra della Chiesa, ma è il «servo dei servi di Dio», all’interno del corpo mistico di Cristo.
In quest’ottica di comunione Giovanni Paolo II nell’enciclica Ut unum sint invita i vescovi e i teologi al dialogo, per «trovare una forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra a una situazione nuova», più conforme allo «spirito collegiale» del Concilio. Questo «spirito collegiale» va al di là della collegialità in senso strettamente giuridico e dovrebbe animare tutte le forme di collaborazione e di partecipazione nella vita della Chiesa.
Lo «spirito collegiale» rende fecondo il rapporto dialettico tra obbedienza e profezia, tra istituzione e carismi che è costitutivo della Chiesa, la quale – come insegna san Paolo – è edificata «sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti» (Ef 2,20), cioè sull’istituzione apostolica e sul carisma profetico. Nessuno nella Chiesa può mettere in dubbio l’obbedienza, di cui Cristo è stato modello. Tuttavia, lo stesso Spirito Santo che affida alla gerarchia la missione di guidare, dispensa pure tra i semplici fedeli di ogni ordine i suoi doni o carismi, utili al rinnovamento e alla crescita della Chiesa, che vanno riconosciuti e accolti con gratitudine. L’obbedienza quindi non esclude, ma postula il “dialogo intraecclesiale” e lo “spirito collegiale”, ai diversi livelli della vita comunitaria.
Immagini del Concilio Ecumenico Vaticano II.
2. Rivalutazione del ruolo proprio dei fedeli laici e della «laicità».
Un’altra conseguenza pastorale delle acquisizioni teologiche conciliari è la rivalutazione del ruolo proprio dei fedeli laici nella Chiesa e nel dialogo con il mondo. In una Chiesa non più «società perfetta», ma «popolo di Dio in cammino nella storia», i fedeli laici non sono più minorenni, né «preti mancati», né delegati del clero, ma ricevono direttamente da Cristo, nel Battesimo e nella Confermazione, la missione unica, propria di tutto il Popolo di Dio, partecipando – nella loro misura – dell’ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo.
È questa una «svolta» certamente significativa, se si pensa al ruolo meramente “passivo” che la teologia posttridentina assegnava ai laici, quale è rimasto consegnato nelle famose parole di Pio X: «Solo nel corpo pastorale risiedono il diritto e l’autorità necessari per promuovere e dirigere tutti i membri verso il fine della società. Quanto alla moltitudine, essa non ha altro diritto che quello di lasciarsi guidare e, come docile gregge, seguire i suoi pastori».
I fedeli laici, nel loro impegno temporale – afferma ora il Concilio – godono, invece, di una legittima autonomia: «Dai sacerdoti i laici si aspettino luce e forza spirituale. Non pensino però che i loro pastori siano sempre esperti a tal punto che a ogni nuovo problema che sorge, anche a quelli gravi, essi possano avere pronta una soluzione concreta o che proprio a questo li chiami la loro missione: assumano invece essi, piuttosto, la propria responsabilità, alla luce della sapienza cristiana e facendo attenzione alla dottrina del Magistero».
Nessuno, però, può presentare la propria scelta come l’unica coerente possibile. Infatti per il cristiano il pluralismo delle opzioni temporali, anche di quelle politiche, è legittimo e normale, perché la mediazione culturale e storica è sempre necessaria per passare dai princìpi alle scelte operative, che sono laiche e tali devono rimanere: «Nelle situazioni concrete e tenendo conto delle solidarietà vissute da ciascuno, bisogna riconoscere una legittima varietà di opzioni possibili. Una medesima fede cristiana può condurre a impegni diversi».
I padri in piazza San Pietro
3. La formazione dei fedeli a una fede adulta.
A questo punto è chiaro che, per portare a compimento la riforma voluta dal Concilio, s’impone uno sforzo formativo straordinario sul piano della maturazione della fede. È questa la conseguenza pastorale più importante dei «balzi in avanti» sul piano teologico. Infatti, solo da una “fede matura” può derivare nella Chiesa la ripresa di spiritualità di cui ha bisogno per portare a termine il suo necessario rinnovamento interno. La ripresa – insiste sempre il Concilio – troverà il suo alimento soprattutto nella riforma liturgica e nella pratica della lectio divina.
Nello stesso tempo, la formazione a una fede matura esige però un’adeguata preparazione teologica. Prima del Vaticano II, si confrontavano due diversi modi d’intendere la teologia. Il primo, di tipo tradizionale, si preoccupava soprattutto di difendere la verità dogmatica, era quindi di natura prevalentemente apologetica; il secondo, invece, ispirato a una concezione rinnovata della teologia, si preoccupava soprattutto di rendere le Verità rivelate più comprensibili e assimilabili dalla cultura contemporanea, prendendo atto che nel corso dei secoli la conoscenza della Verità cristiana è venuta crescendo anche attraverso il confronto con le diverse culture e con il progredire della storia: «Cresce infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, sia con la riflessione e lo studio dei credenti (...), sia con l’esperienza data da una più profonda intelligenza delle cose spirituali, sia per la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro di verità».
Il concilio Vaticano II ha preferito chiaramente questa concezione rinnovata di teologia, in quanto essa segue il modo stesso scelto da Dio per rivelarsi all’umanità. Tutta la Storia della Salvezza insegna che la Verità rivelata diviene accessibile all’intelligenza e alla coscienza umana attraverso le mediazioni storiche e culturali.
Pertanto, una seria formazione alla fede si dovrà fondare, oltre che sulla meditazione e contemplazione della Parola di Dio, anche sullo studio e sull’approfondimento della teologia rinnovata promossa dal Concilio.
Bartolomeo Sorge