12/05/2011
Non desiderare la roba d’altri. Nell’ultimo episodio del Decalogo Krzysztof Kieslowski tira fuori le unghie di un humour nero mai mostrato così graffiante nei capitoli precedenti. Due fratelli ereditano dal padre una collezione di francobolli e d’incanto soccombono alla medesima passione, restandone così intrigati che, pur non dovendo dividerla con altri, non esitano a farsi la guerra a vicenda.
Un’allegoria dell’avidità umana (il suo capostipite è Greed, il capolavoro di Erich von Stroheim realizzato fra il 1924 e il 1925) che nella storia del cinema vanta innumerevoli precedenti. Fra questi, un posto di tutto rispetto merita Miracolo a Milano di Vittorio De Sica. Ispirato a un romanzo di Cesare Zavattini (Totò il buono) il film racconta come la vita povera ma serena di un campo di barboni sia improvvisamente scossa quando si apprende che le sue misere baracche sono state costruite sopra un giacimento petrolifero del quale fino a quel momento si ignorava l’esistenza. Scacciati in malo modo dal brutale intervento delle forze dell’ordine, pronte a intervenire appena il proprietario del terreno si muove per mettere le mani su quel desolato terreno di periferia fino ad allora ignorato e trascurato, a cavallo di scope volanti i vagabondi si trasferiscono in un fiabesco paese libero da speculazioni economiche e da bramosie di possesso.
Un’eco zavattiniana di questo tipo si avverte anche in Milagro (“miracolo” in spagnolo) diretto da Robert Redford. Anche qui una speculazione edilizia e finanziaria che vorrebbe scacciare i pacifici contadini di un paesino del Nuovo Messico dai campi di fagioli che coltivano da sempre per trasformare questi ultimi in lussuosi campi da golf.
L’interesse, il profitto, il guadagno al di sopra del lavoro, della fatica, della dignità e delle vita stessa spesa in luoghi diventati un tutt’uno con la propria esistenza. Il desiderio per la “roba d’altri” lascia il terreno della favola poetica e della parabola per farsi tragedia moderna in Jean de Florette e nel successivo Manon delle sorgenti del francese Claude Berri (con un grande cast: Yves Montand, Gérard Depardieu, Daniel Auteuil). Tratti da un romanzo del marsigliese Marcel Pagnol, i due film di questa megaproduzione mettono in scena il dramma della penuria d’acqua che fino alla metà del secolo scorso ha travagliato la bella ma arida terra di Provenza dove il possesso di una sorgente era motivo di una catena di odii, faide, vendette a non finire.
Dalla terra, simbolo ancestrale e primitivo della proprietà e della sensazione di potere, all’immaginario più comune della ricchezza, ovvero a un’esistenza di lusso e di agi, con l’accompagnamento di tanto denaro e il contorno di bei palazzi, servitù, gioielli, abiti eleganti, vita di società. Se poi il tutto arriva senza fatica e senza sforzo attraverso un matrimonio d’interesse, ancora meglio e ancora più facile. E’ quel che si verifica nell’Ereditiera di William Wyler (con Olivia De Havilland e Montgomery Clift), tratto dal romanzo di Henry James Washington Square.
Una storia comune che si conclude con effetti ancora più devastanti in Un posto al sole di George Stevens (sempre interpretato da Montgomery Clift, che nel giro di due anni, dal 1949 al 1951, si calò in due personaggi molto simili), a sua volta ispirato a un famoso romanzo qual è Una tragedia americana di Theodore Dreiser.
Ma c’è stato anche chi ha affrontato il decimo comandamento con spirito squisitamente satirico e surreale, come ha fatto il georgiano Otar Ioseliani in Caccia alle farfalle, film di produzione francese, racconto morale che condanna senza remissione ma con ironia l’avidità umana destinandola a consumarsi in una manciata di cenere.
Enzo Natta