04/09/2010
Il gesuita italiano Paolo Dall' Oglio durante un incontro con altri monaci del monastero Mar-Musa, nel deserto siriano.
Lo shaykh del deserto ha la barba bianca e sogna a occhi aperti come un ventenne. Ha conosciuto il tempo del silenzio senza risposte, quello della semina, poi dell’attesa. E oggi che intravede i primi frutti, pensa a nuovi deserti e altre attese. Paolo Dall’Oglio, classe 1954, è uomo e prete di una generazione che ha saputo assaporare le potenzialità di una società e di una Chiesa che potevano essere diverse. In Siria, sui ruderi del monastero di san Mosé l’Etiope, Deir Mar Musa el-Habashi, ha costruito pietra dopo pietra lo spazio d’incontro tra fedeli di monoteismi diversi e di Chiese sorelle, separate in casa. Romano, gesuita, incardinato nella Chiesa siro-cattolica, ha fatto sintesi tra Ignazio e i padri del deserto, tra il Vaticano II e i mistici sufi, tra l’eterna saggezza monastica e le mille domande di tanti uomini e donne del nostro tempo che, da ogni latitudine, vengono a cercare pace e risposte in questo angolo di Medio Oriente.
In dieci persone, monaci e monache, e numerosi volontari, provenienti da tradizioni cristiane diverse, conducono vita di preghiera e accoglienza in questo eremo arroccato sulla roccia. Guardano all’eredità di Charles de Foucauld, celebrano la liturgia in arabo; di recente hanno ri-aperto una seconda sede, a circa 50 chilometri di distanza, in direzione di Palmira: l’antico monastero di San Giuliano, Mar Eliyan, nei pressi dell’oasi di Qaryatayn.
«Il monastero cristiano orientale sulla rive del deserto, sul piano simbolico, fa parte del mondo musulmano, dal profeta Mohammed fino a oggi», dice padre Dall’Oglio. «I cristiani monaci fanno parte della spiritualità musulmana. Noi siamo un simbolo dell’islam, siamo riconosciuti come luogo di presenza spirituale di Dio, di incontro devoto, d’intercessione». Entrare nello spirito e nel pensiero che guida questa esperienza non è facile. Anche Roma ha faticato a capire. Negli anni, Dall’Oglio ha spiegato e approfondito, cercando di mantenere l’ispirazione originale di un’esperienza di confine, senza oltrepassare la sottile linea che divide l’evangelizzazione di frontiera dal sospetto di mancata ortodossia.
«Siamo una comunità per il dialogo interreligioso: questo è ben spiegato, anche da un punto di vista dogmatico, nelle nostre costituzioni, che nel 2006 hanno ricevuto il nulla osta della Congregazione per la dottrina della fede», spiega padre Paolo. Per completare l’iter giuridico da un punto di vista canonico, e procedere all’erezione che spetta al vescovo locale, la comunità aspetta l’incoraggiamento del patriarca siro-cattolico. Sul piano giuridico, al momento Dall’Oglio è «fondatore» e svolge ruolo di priore del monastero, «attendendo che fra tre-quattr’anni la comunità sia pronta, sia canonicamente che umanamente a eleggere il suo superiore». Se fosse lui, automaticamente perderebbe l’appartenenza alla Compagnia di Gesù. «La mia speranza è che venga eletto un altro: io vorrei diventare un itinerante, andando in giro per il mondo musulmano a preparare altre fondazioni».
Ha già in mente qualche posto dove realizzare questo suo desiderio?
«Il Pakistan. Ci sono già stato perché anni fa avevo sognato, letteralmente, di andare a scoprire una vecchia missione cattolica abbandonata nel Nord del Paese. Presi contatti con il vescovo del posto, raccontandogli il mio sogno. Mi rispose che era disponibile. Con gli autobus ho attraversato Turchia, Iran, Belucistan, fino a raggiungere Islamabad. Con un autista messoci a disposizione dal vescovo locale girammo tutta la diocesi, finimmo in un posto nella catena montuosa tra Lahore e Islamabad, a Dalwal, dove alla fine del XIX secolo un emiro locale divenuto cristiano aveva creato una scuola per periti agrari con tre collegi distinti, per indù, musulmani e cristiani. E li aveva affidati ai Cappuccini fiammighi. Ho ritrovato questa struttura, che era stata abbandonata nel 1954 e poi nazionalizzata. Ho celebrato messa sulle tombe dei frati. Poi non se ne è fatto più nulla. Ma il mio sogno si è realizzato in una logica di Chiesa, perché oggi, in quel posto, c’è la cittadella del dialogo interreligioso creata dai Focolarini del Pakistan. Comunque continuo a coltivare l’idea di tornare ai confini con l’Afghanistan, dove c’è una presenza cristiana seminale e una mini-parrocchia cattolica... Oppure sulla via himalayana per la Cina, percorsa da tanti giovani».
E se non fosse il Pakistan?
«Mi attira Al Khalil, cioè Hebron, la città di Abramo a sud-est di Gerusalemme verso il deserto, ma anche l’Africa musulmana sub sahariana... Comunque il mondo musulmano è grande, andrebbe bene anche un quartiere periferico di Parigi. Dipende dal numero, la qualità e l’entusiasmo delle vocazioni che verranno».
Quali sono i cardini di questa spiritualità che dialoga con l’islam?
«Il radicamento è nei padri del deserto, egiziano e siriaco. La tradizione dell’esperienza monastica in terra d’islam, quattordici secoli di buon vicinato, e poi Charles de Foucauld e Louis Massignon. De Foucauld nel 1909 aveva fondato una fraternità laica di persone che volevano vivere lo spirito di Nazareth in ambiente musulmano. Alla sua morte ne diventa responsabile Massignon. Questa realtà oggi si è data dei delegati per le diverse aree linguistiche e, per la lingua araba, c’è il sottoscritto. In qualche modo ho una fiaccola defoucaldiana in mano. Inoltre nella nostra spiritualità, come ispirazione, è innegabile che ci sia anche il Francesco dell’incontro con il sultano e quindi delle stimmate de La Verna. Nell’interpretazione di Massignon, Francesco era andato in Egitto a chiedere il martirio per la conversione dei musulmani, senza ottenerlo. Lo riceverà, invece, all’interno dell’Ordine, si manifesterà con le stimmate, attraverso le quali Dio mostra di accettare il suo voto di dare la vita per i musulmani. In questa interpretazione, che è anche la nostra, l’islam è la questione, la priorità ecclesiale assoluta per Francesco, che si unisce alle Crociate, ma per realizzarne una tutta diversa, a modo suo!».
E lo specifico ignaziano?
«Certamente un altro elemento guida sono gli esercizi di sant’Ignazio, che sono stati anche tradotti in greco dai monaci ortodossi dell’Athos. La capacità degli esercizi di traversare confini è dimostrata. Con un’espressione coranica, diciamo che gli esercizi sono un albero di olivo, né occidentale né orientale. A livello di pratica ascetica e di crescita spirituale, c’è una comunione mediterranea molto più profonda di quella che si ritiene normalmente. Negli ultimi anni, inoltre, nel nostro monastero sono passati molti fratelli protestanti coi loro preti e pastori, uomini e donne, e con i loro gruppi di collaborazione con i musulmani. In ambiente svedese e norvegese c’è un forte movimento di esercizi spirituali ignaziani. Addirittura si diffondono nelle carceri. Insomma vedo che gli esercizi offrono una pedagogia spirituale fertile anche ecumenicamente e interreligiosamente».
Gli esercizi di Sant’Ignazio possono essere dati anche ai musulmani?
«Io non li dò perché ritengo che proporre una serie di meditazioni bibliche a una persona che vive del Corano sia un gesto discutibile. So che c’è chi lo fa, ma imbarca dei musulmani nei gruppi cristiani. Non è questa la mia prospettiva. Piuttosto, sarei interessato a cercare un’analogia della pedagogia ignaziana all’interno della tradizione spirituale musulmana. Vedremo...».
Partendo dalla sua esperienza, in vista del dibattito al prossimo Sinodo sul Medio Oriente, quale dialogo teologico è possibile con l’islam?
«L’Oriente cristiano in ambiente musulmano non è riuscito a formulare una teologia adeguata e positiva del valore teologico dell’islam. L’Occidente ne ha elaborata una, ma in senso negativo, cioè esprimendo una radicale scomunica dell’islam: mi riferisco a quattordici secoli di tradizione che vede i musulmani come infedeli. Nella visione medievale occidentale la questione è dolorosamente netta. L’Oriente cristiano in ambiente arabo ha espresso una visione diversa, perché sviluppare una capacità di buon vicinato ha in sé un valore teologico. Insomma, non si può convivere con una persona, salutarla sul pianerottolo, piangere per i suoi dispiaceri, far giocare assieme i ragazzini e poi pensare che vada all’inferno. Nell’VIII secolo a Baghdad, il patriarca nestoriano Timoteo I dice al califfo al-Mahdi: “Muhammad ha camminato sulla via dei profeti e degli amici di Dio”. Già questo era un tentativo di dare uno status teologico all’islam. Prima di lui, Giovanni Damasceno parlò dell’islam come di una “eresia cristiana”, riconoscendone la parentela teologica in vista della riconciliazione finale in Cristo. La prossimità biblica vetero e neo-testamentaria dell’islam è molto forte. Se uno va a cercare tutti i motivi per dire che il Corano non è originale, ne trova quanti ne vuole: lingua, concetti, storia e simboli sono precedenti. Ma il precipitato linguistico-teologico coranico gode di un’originalità propria, centrata sull’avventura religiosa del Profeta, e che va rispettata come tale. Su questo con i musulmani c’è un campo di comprensione molto ampio. Oggi è necessario aguzzare l’ingegno teologico, affinare l’obbedienza pneumatica, per essere più cattolici, e provare ad aprirsi all’opera dello Spirito. Perché l’islam di oggi deve essere interpretato dalla carità, proiettata su un domani di grazia, e la carità coopera al suo sviluppo verso un futuro provvidenziale: ciò che noi siamo veramente è in vista del compimento escatologico. Ciò che sapremo diventare assieme, il compimento finale, è quanto fornisce fin d’ora la logica dello sviluppo. Non si tratta tanto di cercare in radice ciò che è da Dio e ciò che non lo è, perché tutto viene da Dio e tutto è corrotto dalla disobbedienza, ma se ci mettiamo a obbedire, tutto viene trasformato. “Tutto è contenuto dalla misericordia di Dio”, dice il Corano».
A quale livello è possibile, dunque, questo tipo di dialogo?
«È possibile a livello di base, quando un cristiano e un musulmano che lavorano insieme si riconoscono sinceri davanti a Dio reciprocamente. Allora siamo in presenza di un evento simbolicamente escatologico di riconciliazione finale».
Lei ha più volte parlato di «Chiesa islamo-cristiana». Cosa intende oggi con questa espressione?
«Il patriarca melchita di Damasco ha parlato, in un articolo pubblicato sulla rivista Oasi, di “Chiesa dell’islam”, che è un concetto parallelo a quello di Chiesa islamo-cristiana. Personalmente, intendo una Chiesa che sviluppa la coscienza identitaria di essere inviata ad annunciare la carità di Cristo ai musulmani. L’idea d’una possibile sintesi islamo-cristiana presupporrebbe quella dell’islam come preparatio evangelica, ma io oggi preferisco guardare all’islam attraverso la categoria di preparatio escatologica, concetto teologico che significa riconoscere che l’altro converge con noi, che tutti convergiamo assieme verso un eschaton dove non ci attende una fusione di identità, ma una comunione di identità. Ripeto, scegliamo nel Signore di essere compagni di strada in una prospettiva d’armonizzazione ma anche di purificazione finali... sempre attuali e presenti all’oggi esistenziale, mistico e politico! Il nostro avanzare assieme verso la manifestazione ultima del piano grazioso della misericordia divina, per noi cristiani davvero centrato nel mistero del Figlio di Maria, non persegue tanto un coordinamento dogmatico e un’unificazione identitaria, ma un superamento estatico di comunione nella carità».
Quale sarà, dal suo punto di vista, la questione centrale nel Sinodo di ottobre per il Medio Oriente?
«L’Instrumentum laboris ripete cinque volte che cristiani e musulmani non possono vivere assieme se non si realizza la separazione tra religione e Stato in una laicità positiva. Capisco e mi pare giusto che i cristiani debbano ricordare ai loro vicini musulmani che non sono contenti d’essere considerati cittadini di seconda categoria, tollerati e protetti non sulla base di sacrosanti diritti umani ma sulla base della discriminazione operata dalla legislazione religiosa. Ritengo però illusorio pretendere che l’evoluzione del mondo musulmano possa avvenire semplicemente adottando il modello moderno occidentale. L’islam svilupperà la sua propria e originale via alla modernità reinterpretandosi autonomamente... Certo, con l’attiva e benevola partecipazione dei cristiani orientali, e dei discepoli di Gesù di qualunque provenienza e condizione che si dedicano al ministero del dialogo fraterno. I modelli importati e imposti non funzionano! La via della testimonianza generosa e della gratuità è la più fertile. La riforma interna delle nostre Chiese è il più grande servizio che possiamo offrire al mondo. E poi la democrazia moderna non cade dall’alto, si sviluppa in modo geniale dal basso secondo modalità proprie a ogni contesto, seppur esposto allo stimolo delle dinamiche globali, nel bene e nel male, in azione e reazione».
Vittoria Prisciandaro