31/07/2010
Il monastero trappista di Tibhirine, a Sud di Algeri.
Con le mani nella stessa terra. Quella che i monaci hanno
coltivato per decenni. Ma anche quella in cui lavorano le mani della gente
del posto. Padre Jean Marie Lassausse la vive così la sua esperienza ormai
decennale di presenza al monastero di Tibhirine, in Algeria. Mani nella
terra. Ma con un'aspirazione alta: mantenere vivi il dovere della memoria e
l'aspirazione di futuro. Lo fa aggrappandosi alla precarietà del presente e
a quel pezzo di terra che ha continuato a dare frutti.
È piovuto molto a Tibhirine questo inverno e la primavera sboccia in un
incanto di verde e di boccioli di ciliegio. È la vita che si rinnova in un
luogo così fortemente segnato dalla tragedia e dalla morte. Qui, nella notte
tra il 26 e 27 marzo 1996, furono rapiti sette monaci trappisti, che avevano
scelto di restare nel monastero, nonostante le violenze e le minacce del
terrorismo islamista che in quegli anni imperversava nel Paese, e
specialmente nella zona di Medea, dove si trova il monastero. Furono uccisi
il 21 maggio e le loro teste mozzate vennero ritrovate qualche giorno dopo,
lungo la strada che porta a Medea. Il barbaro assassinio venne rivendicato
in un comunicato del Gruppo islamico armato (Gia); ma permangono
ancora molti dubbi sulle reali circostanze della morte.
Padre Jean Marie sorvola volentieri sulle polemiche politiche e sulle
questioni giuridiche. Preferisce riappropriarsi del senso di quella
presenza, unico segno di cristianità in un mondo interamente musulmano. Ma
anche segno di fedeltà e di vicinanza a quella terra e a quella gente. D'altronde,
così si concepivano i monaci, la cui presenza risaliva al lontano1938: una
presenza essenzialmente di preghiera e di contemplazione, ma anche di
apertura al territorio e alla popolazione locale, soprattutto attraverso i
lavori agricoli e la decennale opera di assistenza medica di frère Luc.
Padre Jean Marie, della Mission de France, ha lasciato la sua
missione in Egitto per venire qui. Ingegnere agronomo, ha ripreso il lavoro
esattamente da dove lo avevano lasciato i monaci e con le stesse persone, i
suoi due operai Yussef e Samir, anche loro segno di una continuità che
nonostante tutto non si è mai completamente interrotta.
Prima tappa, obbligata, il cimitero. Padre Jean Marie fa strada e
intanto racconta. «La fedeltà a questi luoghi e a ciò che rappresentano -
nonché la fedeltà alla memoria dei monaci - significa innanzitutto una
presenza giocata nel lungo periodo. Quella dei monaci è stata una scelta di
fedeltà sino al sacrificio, che rilancia una sfida sempre attuale e che
continua a interpellarci: quella del "vivere-con", a qualsiasi prezzo». È
questo, dice padre Jean Marie, «il senso più profondo della nostra
testimonianza cristiana in terra d'islam e l'essenza del nostro dialogo
interreligioso: dialogo fatto soprattutto di presenza, di incontri, di
amicizie, di lavoro insieme. Insomma, delle cose semplici della vita di
tutti i giorni».
Nel cimitero, i sette monaci uccisi nel 1996 sono
seppelliti accanto ai loro confratelli vissuti e morti qui nell'arco di
quasi sessant'anni di presenza dei trappisti in questo monastero, situato
sulle alture verdeggianti che circondano Medea. Dalle terrazze del secondo
piano, il panorama è vasto e incantevole. Eppure sono luoghi che continuano
a parlare di violenza e morte. Nel villaggio di fronte, Tamesguida, il 15
dicembre 1993, vennero uccisi dodici lavoratori croati, colpevoli solamente
di essere stranieri e cristiani. Ma anche la gente del posto, musulmana
esattamente come i propri carnefici, non è stata risparmiata. La regione di
Medea è tra quelle che ha pagato il prezzo di sangue più alto. E che non può
dimenticare, nonostante il tentativo del Governo algerino di rimuovere dalla
memoria collettiva gli anni bui del terrorismo islamico e delle stragi dell'esercito,
impedendo alla gente di parlare e di raccontarsi.
Il film sui monaci di Xavier Beauvois, Des hommes et des dieux,
va esattamente nella direzione opposta. Risponde con grande sensibilità ed
equilibro a un dovere della memoria, tenendosi a dovuta distanza dalla
politica e dalle polemiche e indagando con delicatezza e profondità la vita
monastica, semplice e concreta, ma altrettanto radicale, di questo gruppo di
uomini, che ha scelto di restare in mezzo al popolo algerino a ogni costo.
Anche a quello della vita. «E infatti», fa notare padre Jean Marie, «i
giornali algerini hanno completamente ignorato il film e il premio ricevuto
al Festival di Cannes. Eppure, il messaggio che passa è certamente positivo:
un messaggio di fratellanza e amicizia con i fratelli musulmani e di fedeltà
a questo Paese, che i monaci amavano profondamente».
Scriveva il priore di Tibhirine, Christian de ChChergé,
in quel breve e sublime testo che è il suo testamento spirituale: «L'Algeria
e l'islam, per me, sono un'altra cosa, sono un corpo e un'anima. Ho
proclamato abbastanza, credo, davanti a tutti, quel che ne ho ricevuto,
ritrovandovi così spesso il filo conduttore del Vangelo appreso sulle
ginocchia di mia madre (tutta la mia prima Chiesa), proprio in Algeria e,
già allora, con tutto il rispetto per i credenti musulmani».
Padre Jean Marie sa che anche oggi non è facile, nonostante la
situazione sia molto più tranquilla. Ciononostante, dal 2006 gli è stata
imposta una scorta armata lungo il tragitto Algeri-Tibhirine, che padre Jean
Marie è costretto a fare a tutta velocità tra camionette e moto, che
viaggiano a sirene spiegate. Dopo un periodo di profondo disagio per questa
presenza «ingombrante», adesso riesce a scherzarci sopra: «La cosa più
pericolosa oggi è proprio la velocità folle a cui sono costretto a
guidare!», dice con una risata.
Poi torna serio, mentre ci mostra la cappellina ricavata dall'ex
cantina del convento. Sulle pareti si intravvedono ancora le nicchie in cui
erano sistemate le botti del vino. Ora le vigne hanno lasciato il posto ai
campi di legumi e agli alberi da frutta: meli e ciliegi soprattutto, ma
anche cachi, more, fichi, rabarbaro e altro ancora, con cui vengono prodotte
quindici varietà diverse di marmellate, che vengono poi vendute sul mercato
di Algeri. Un modo per autosostenersi, insieme alla vendita degli
ortaggi, delle mele e dei montoni sul mercato di Medea. Ma anche
un modo per creare, attraverso queste attività e altri piccoli commerci, un
legame con la gente. «Noi continuiamo a fare tutto quello che possiamo per
camminare sulle orme dei monaci, con umiltà e discrezione, cercando di
tessere nuove relazioni con i vicini».
Tutti al villaggio lo conoscono. «Jomarie, Jomarie!», lo chiamano per salutarlo, storpiando il suo nome. La gente è calorosa, ma anche molto
tradizionalista. Non gli fanno mancare i cibi e i dolci delle feste, ma mai
lo invitano a casa, specialmente se ci sono delle donne.
È quasi un miracolo, allora, la presenza di un
gruppetto di ragazze che viene regolarmente in una saletta attigua al
monastero, dove è stato ricavato un laboratorio di ricamo. Creato e animato
da una dinamica religiosa belga, suor Simone, delle Suore Bianche - che qui
in Algeria vantano una storia straordinaria di presenza e vicinanza
soprattutto al mondo femminile e nel campo dell'educazione - viene ora
portato avanti da una religiosa di origini messicane, suor Bertha.
Tutte le settimane, insieme, a padre Jean Marie, sale al monastero
e si dedica alle sue ragazze, che fanno da riferimento per un gruppo più
vasto di donne, che lavorano in casa e che realizzano degli splendidi
manufatti ricamati finemente. È un'occasione per uscire di casa (per quelle
che possono) e per raggranellare qualche soldo, integrando i magri bilanci
familiari in una regione estremamente povera, dove il tasso di
disoccupazione è altissimo.
Da circa tre anni, c'è anche una monaca che sale al monastero,
suor Agnès, delle claustrali di Bethléem, che hanno aperto una presenza ad
Algeri con la speranza di potersi, un giorno, trasferire a Tibhirine.
Speranza per il momento alquanto remota. E allora, mentre le sue consorelle
si dedicano alla preghiera e all'adorazione nella loro casa di Algeri, suor
Agnès cerca di recarsi regolarmente al monastero per tenere un po' d'ordine
e pulizia in questo enorme edificio. «Il futuro», dice sorridente, «è nelle
mani di Dio».
Intanto, però, il presente del monastero è fatto di una
quotidianità semplice, scandita dai ritmi ineludibili delle stagioni e dei
lavori agricoli e movimentata dalle visite della gente del posto e di
qualche gruppo di pellegrini che si avventura sin qui. Molti ne restano
affascinati. Molti ne sono turbati. Specialmente per la presenza di un'enorme
moschea proprio di fronte all'ingresso del monastero. Non può non colpire,
soprattutto ora che i lavori sono ripresi ed è ormai a buon punto. Un dispiacere già per il padre Christian, che in nessun modo aveva voluto
ostacolarne la costruzione, ma che aveva chiesto che la facessero qualche
centinaio di metri più in basso. E invece l'hanno voluta fare proprio lì,
simbolicamente di fronte al cancello del monastero.
Padre Jean Marie se n'è fatto una ragione. «Proprio in un'ottica di
dialogo e amicizia», dice, «avevamo messo a disposizione una stanzetta della
dependance del monastero per la scuola coranica in attesa che
costruissero la moschea con le annesse sale per lo studio. Ora ce l'hanno
restituita, ma questo rapporto è andato avanti per molti anni. Abbiamo anche
fornito l'acqua per fare il cemento per la moschea. Dopo tutto, abbiamo
pensato che fosse meglio coltivare buoni legami di amicizia piuttosto che
ostacolare la costruzione della moschea».
Certo quell'enorme edificio in un villaggio con poche centinaia di
abitanti (e con altre quattro moschee nei dintorni) sta a dire che niente è
davvero semplice o scontato in questo Paese. Un Paese che fatica
innanzitutto a fare i conti con sé stesso, con la propria storia e le
proprie ferite e tende a scaricare sul diverso, lo straniero o il
non-musulmano, le frustrazioni di malesseri propri mai affrontati e risolti.
Anna Pozzi