25/08/2010
Aspetti etici e relazionali
1. Parole da dire, parole da ascoltare
Le riflessioni che voglio proporre sono di natura etica, dal momento che l’etica ha a che fare con i comportamenti, e occorre rispondere a questa domanda: cosa dobbiamo fare nei confronti dei malati di Alzheimer e dei malati dementi? Cosa dobbiamo fare come professionisti, come cittadini, come società?
Anch’io sono stato provocato dall’editoriale di "Famiglia Oggi", laddove si domanda: "Esistono parole di conforto in simili situazioni? Crediamo di no". E’ così, non ci sono parole di conforto da dare a chi è colpito da questo male.
Ma credo che prima ancora di dare delle parole, dovremmo cominciare a domandarci non soltanto che cosa dire o che cosa fare, ma che cosa ci dicono i malati di Alzheimer o i malati dementi.
Questo spunto mi è dato da una riflessione filosofica di Iris Murdoch, che è stata una scrittrice molto importante, sia come filosofa che come narratrice. C’è un motivo particolare per cui debba essere menzionata in questo contesto, perché è appena uscito da Rizzoli la traduzione del libro di John Bailey "Elegia per Iris", libro scritto da suo marito, in cui racconta gli ultimi anni della moglie, che ha sofferto di Alzheimer. Questa donna intelligente e brillante ha subìto, non diversamente da tutti gli altri malati, questa progressiva perdita delle facoltà intellettuali superiori, della memoria, dell’identità.
Il marito ricostruisce questa vicenda in maniera molto coinvolgente. Iris Murdoch in un suo saggio filosofico dice - parlando dell’etica - "nella scelta morale è molto importante ed essenziale l’attenzione. La scelta morale è una questione di visione, prima ancora che di decisione; e questa visione è condizionata dal nostro impegno, previa la scelta di osservare il mondo con un’attenzione amorevole e attenta, frutto a sua volta di un impegno morale che ci permette di vedere le persone e le cose rispettandone le caratteristiche e le esigenze".
E’ molto sofisticata questa circolarità tra visione e decisione; il deciderci moralmente dipende da quello che vediamo; quello che vediamo dipende da una decisione etica previa (da quello che "scegliamo" di vedere).
Di fronte ai malati di Alzheimer che cosa vediamo, che cosa ci dicono e quindi che cosa dobbiamo fare, quali sono le decisioni da prendere nei loro confronti?
2. Curare e prendersi cura
Io credo che la prima cosa che ci dicono questi malati, se li ascoltiamo e dedichiamo loro l’attenzione, è: "Sono una persona malata." E’ prevalente questa dimensione di malattia rispetto a qualsiasi altra qualifica e quindi questo fa scattare le risposte etiche che noi abbiamo associato alla situazione di malattia. Cosa dobbiamo fare di fronte a una persona malata ? Noi abbiamo delle tradizioni etiche riassumibili appunto nel capitolo dell’etica medica, come un capitolo costitutivo del nostro essere persone morali, che ci dice che di fronte a un malato noi dobbiamo curarlo e prendersi cura (to cure e to care).
Questa è la risposta obbligata, anche se vediamo subito che qui ci troviamo di fronte a un fatto abbastanza squilibrante rispetto all’equilibrio tra il curare e prendersi cura . E’ ovvio che noi vogliamo che "ci si prenda di cura" di noi, anche quando possiamo essere curati e addirittura guariti, tanto che la nostra insoddisfazione per un processo di cura in cui non ci sia stato anche il prendersi cura è molto forte; ma siamo abbastanza disposti a tollerare una mancanza di prendersi cura, quando c’è una cura.
Ora, quando non c’è la cura, il prendersi cura deve riempire questo vuoto. Il punto è che noi di fronte ai malati di Alzheimer e ai dementi, notiamo l’insufficienza di una medicina che si modula sempre di più sul curare piuttosto che sul prendersi cura. Abbiamo un lamento continuo, una medicina molto più efficace del passato nel curare, una medicina cioè dei professionisti della medicina, delle cure, ma molto meno capace di prendersi cura.In un articolo molto importante di Daniel Callaghan, "La demenza e la cura ad essa appropriata; l’allocazione delle risorse scarse", trovo un’affermazione che mi sembra meriti tutta la nostra considerazione: "L’Alzheimer - dice Callaghan - è un cruccio imbarazzante per la medicina contemporanea, perché presenta tutto ciò che la medicina cerca di eliminare; la mortalità, la necessità di un mutuo soccorso umano, la richiesta di un più personale sacrificio di sé da parte dei familiari ".
Dunque, riguardo a questo primo imperativo: "curare e prendersi cura", abbiamo perlopiù una medicina che essendo tutta modulata sul curare non sa più prendersi cura, e soprattutto abbiamo alcuni sfasamenti tra un comparto socio-sanitario che ha delegato sempre più l’assistenza alla società, scaricandone la medicina, e ha inoltre scaricato il peso dell’assistenza sulla famiglia. Questa modalità di allocazione di risorse, questo razionamento occulto per cui le risorse vengono destinate alla cura e non all’assistenza e l’assistenza viene relegata alla famiglia, è in atto da parecchio tempo. Abbiamo dunque bisogno che l’etica medica si ricordi questo compito fondamentale, che è un compito della medicina, curare e prendersi cura.
3. Il compito della ricerca scientifica
Abbiamo però anche un’altra cosa importante, sempre mutuata dall’etica medica, ed è la necessità della ricerca, perché il nostro punto di partenza è che noi di questa malattia conosciamo molto poco. Un’immagine molto pittoresca di uno studioso americano è questa: "Noi conosciamo della malattia dell’Alzheimer e delle altre malattie degenerative della mente, tanto quanto Colombo conosceva dell’America quando è sbarcato alle Bahamas." Conosciamo, quindi, praticamente niente, poco o niente; e allora bisogna fare ricerca, bisogna studiare, ma qui nascono dei problemi di grandissima rilevanza etica, perché la ricerca fatta con i malati e sui malati viene a scontrarsi con delle esigenze etiche che siamo stati abituati a correlare in questi ultimi decenni con la ricerca.La ricerca è necessaria, ed è necessaria la ricerca sull’uomo, perché non tutto quello che si può ricercare sui modelli animali, può essere applicato direttamente sull’uomo; ad un certo punto bisogna rivolgere la nostra attenzione ai malati stessi; ma paradossalmente noi ci sentiamo vincolati eticamente a non fare ricerca su malati che non possono dare il libero consenso alla ricerca. E’ una coscienza che è andata sempre più aumentando nella nostra società; pensavamo che il problema della ricerca sui non consenzienti fosse stato risolto con il processo di Norimberga e poi con i Codici di Helsinki, etc., ma non è stato così. Per mettere una data emblematica più recente, molto importante, nel 1966 è apparso nel New England Journal of Medicine, un articolo di Beecher che prendeva in esame ricerche mediche fatte e pubblicate nell’ambito della letteratura, tra le quali - per esempio - c’era una ricerca fatta nel Jewish Cronical Diseases Hospital, un ospedale per malati cronici che ospitava soprattutto dementi nei quali i malati erano ventidue anziani dementi che erano stati utilizzati per sperimentare in vivo delle cellule di cancro. Questo fu pubblicato nel 1966, e ha dato origine poi alla National Commission for the Protection of the Human Subjects of Biomedical and Behavioural Scienses che ha formalizzato le regole che oggi siamo tutti tenuti ad osservare.
Questo è un problema acuto, perché siamo consapevoli, sentiamo che dobbiamo proteggere le persone che non possono dare un libero consenso per una sperimentazione fatta su di loro (sto parlando non di una sperimentazione terapeutica, ma di una ricerca che porti ad aumentare le conoscenze), ma nello stesso tempo non possiamo fare a meno della ricerca, se vogliamo che in futuro la medicina abbia un po’ più di capacità di curare e non soltanto di prendersi cura.
Quindi in primo luogo bisogna negoziare questa capacità, questa possibilità di fare ricerca, anche con i malati di Alzheimer.
Occorre non demonizzare la ricerca; la ricerca non è sinonimo di atteggiamenti di insensibilità, ma bisogna anche proteggere i dementi, che si prestano ad essere materiale ideale per una ricerca, perché la loro fragilità, la loro incapacità di difendersi costituisce un motivo particolare di tutela.
Ci sono delle linee guide europee note come Convenzione per la bioetica"; anzi, più precisamente, il testo si chiama "Convenzione per la protezione dei diritti dell’uomo e la dignità dell’essere umano riguarda l’applicazione della biologia e della medicina"; è un titolo lungo, ma comprende ed esplicita tante cose, non si tratta soltanto di proteggere l’integrità, ma anche la dignità stessa della persona.
In questa convenzione si dà qualche spiraglio, dicendo che quando ci sono persone che non possono dare il consenso, quando, secondo la legge, un maggiorenne a causa di un handicap mentale, di una malattia o per un motivo simile non ha la capacità di dare consenso a un intervento, questo può essere effettuato senza l’autorizzazione del suo rappresentante, di un’autorità o di una persona o di un organo designato dalla legge. Lo spiraglio è quindi che qualcuno può dare il consenso al posto del malato. E’ così delicato questo argomento che la Germania non ha ratificato questo aspetto - per i motivi che sappiamo, di coscienze infelici di quello che ha fatto nel periodo nazista.
Ora, se prendessimo alla lettera queste esigenze di tutela assoluta dei malati , non dovremmo fare ricerca su di loro; ma io credo che sia necessario che chi fa ricerca arrivi ad una negoziazione con la famiglia, perché pur tutelando il malato, proteggendolo da disagi e rischi, tuttavia c’è una specie di dovere sociale; c’è un modo anche di "socializzare la patologia", facendo della ricerca che sia utile per le generazioni future e spesso, se viene presentata in maniera corretta, la famiglia accetta la ricerca stessa.
Un’altra cosa ancora voglio aggiungere sulla ricerca: mi sembra molto importante che non limitiamo la ricerca a quella biologica, anche se ormai siamo quasi calamitati dalla genetica delle strutture sempre più molecolari.
Cito come un esempio il Centro di Psicologia Analisi Transazionale dell’Accademia delle Tecniche Conversazionali qui di Milano: nell’ambito del loro progetto Alzheimer, hanno avviato una ricerca intorno alle parole dell’Alzheimer; in altre parole, cercano di analizzare, mediante tecniche di analisi della conversazione, il linguaggio dell’Alzheimer partendo dall’ipotesi che ciascun paziente, ciascun uomo e ciascuna donna con diagnosi di Alzheimer, mostra stili e forme particolari, strettamente individuali, del modo di dire e questo può essere sia un elemento diagnostico, sia un elemento per mantenere una conversazione.
Ecco, credo che la ricerca non debba essere identificata soltanto con il laboratorio di genetica; anche le ricerche fondamentali, a cominciare da questa, come il parlare con il paziente e capire il suo linguaggio e non squalificarlo totalmente come incomprensibile, siano un ambito molto importante.
4. Alzheimer: prima della notte ….
Che cosa altro ci dice, dunque, il paziente di Alzheimer ? Ci dice : "io sono un uomo malato, sono una persona malata". Quindi abbiamo dedotto: "voglio, chiedo la cura e che ci si prenda cura di me, chiedo anche che si faccia tutto il possibile per capire di più, per dare risposte più efficaci, che si faccia ricerca". Ma questa era la risposta in fondo, di 2.500 anni fa, cioè che abbiamo avuto familiare secondo l’etica medica di 2.500 anni. Oggi noi siamo in una situazione particolare che è la situazione creata dal paradigma moderno, che è quello dell’autonomia delle persone. In altre parole la risposta della modernità stabilisce un rapporto tra chi eroga la cura e chi le riceve che non può essere più basato su dei diritti, deve essere basato sulla partecipazione, l’informazione, tutte le cose che sappiamo benissimo teoricamente, e che hanno cambiato nel giro di vent’anni un rapporto consolidato da 25 secoli di storia.
Non basta la buona intenzione e la buona volontà del curante; per erogare e giustificare le cure: ci vuole l’informazione, il consenso, la partecipazione. E può sembrare addirittura paradossale che noi menzioniamo l’informazione e il consenso nell’ambito di una malattia che sembra quasi a priori eliminare questa possibilità, perché abbiamo a che fare con la demenza; abbiamo a che fare con delle persone che hanno perso l’autonomia, hanno perso le capacità intellettive.Ora però credo che dobbiamo fare due considerazioni realistiche. Primo: non possiamo identificare le demenze di Alzheimer ed altre soltanto con la fase finale, terminale; c’è tutto un processo. E’ un processo che comincia lentamente, con dei sintomi nei quali la consapevolezza – spesso molto dolorosa - di quello che succede cresce lentamente. Cito, per chi volesse un approccio non soltanto scientifico ma narrativo nel senso della fiction, il libro di Martin Suter "Com’è piccolo il mondo", in cui con grande empatia viene raccontato come vive un malato che poi evolverà verso l’Alzheimer: I primi sintomi, come lo smarrire la strada di casa, il trovare i calzini nel frigorifero. Ecco, come vive questi sintomi. Dunque, è un processo, non è soltanto un atto finale.Se prendiamo come termine guida l’obnubilamento, l’oscuramento della ragione, possiamo proprio lasciarci guidare da questa immagine e capire che come a notte fonda non ci si vede, però si arriva a notte fonda attraverso un progressivo diminuire della luce, nella quale ancora ci si vede, poi sempre di meno, finché sia buio fondo. Ebbene, proprio le capacità diagnostiche precoci nei confronti dell’Alzheimer ci pongono il seguente problema: va trattato come un malato premoderno o moderno?, intendendo con questo: va trattato come una persona della quale mi devo prendere cura o curare, insomma fare io, come terapeuta, ma tenendolo fuori dal processo cognitivo della consapevolezza, dal diritto di avere una diagnosi? Parlo intenzionalmente di "diritto alla diagnosi", perché la diagnosi non è una benevolenza del medico, ma è un vero diritto del paziente . Il paziente con l’Alzheimer perde questo diritto? Io non sciolgo questo nodo, ma è un problema etico di grandissima importanza.Un altro territorio da esplorare, un altro strumento di cui tenere conto è l’informazione predittiva: l’informazione predittiva, oggi legata soprattutto ai progressi della genetica, ci parla del rischio dell’insorgere di certe malattie, come, per esempio, la Corea di Hodginton o l’Alzheimer; ci sono ricerche genetiche molecolari che rendono possibile sapere se si è ereditato quel gene autosomico dominante che permetterà alla malattia di svilupparsi. Questo diritto, dunque, a sapere, ma anche il diritto a non sapere. La Convenzione Europea che vi citavo prima, menziona anche il diritto a non sapere. E’ un diritto, lo dobbiamo prendere sul serio? Dobbiamo riconoscere alla persona la capacità di scegliere e anche di sapere e anche con le proprie scelte previe di determinare i limiti della cura.Riguardo all’informazione voglio fare ancora una annotazione relativa alla riservatezza dell’informazione. Perché possiamo avere queste informazioni, ma le possono avere anche non solo le persone direttamente interessate; potrebbero averle anche terze parti, come le assicurazioni ; o i datori di lavoro, o altri ancora. Recentemente Stefano Rodotà, sempre molto attento ai problemi della privacy, riferiva che negli Stati Uniti, persone malate di cancro, che sono state individuate attraverso la prescrizione dei farmaci (oggi, qualsiasi cosa facciamo lascia una traccia magnetica…) si sono viste recapitare a casa delle offerte per comprare dei loculi al cimitero.
Capite che cosa vuol dire la riservatezza delle informazioni relative alla genetica e relative quindi alla possibilità di diagnosticare, di sapere di certe malattie molto in anticipo.
5. Le disposizioni anticipate
Un ulteriore aspetto legato al paradigma della modernità il problema dell’individuo di determinare il quanto e il come della vita che gli resta da vivere, comprese anche le indicazioni, le direttive anticipate - come si chiamano - per quello che avverrà poi; cioè, un paziente di Alzheimer in una fase precoce che sa, che è informato come andrà a finire la sua situazione può, deve dare delle direttive per cui anche quando non sarà più in grado di determinare il corso delle cure comprese anche la rinuncia a certe procedure o interventi medici salvavita, può, deve intervenire in queste scelte ?
Come capite, siamo nell’ambito di una delicatezza estrema. Dal punto di vista normativo abbiamo un punto molto importante nel codice deontologico dei medici, secondo l’ultima versione, del 1998, che ha introdotto un piccolo cambiamento di enorme importanza, perché i codici precedenti dicevano che il medico nelle cure si deve attenere alla "volontà attuale" del paziente.
Ora è chiaro che un paziente demente non ha una "volontà attuale"; l’innovazione fatta dal codice deontologico dice che però le volontà precedentemente espresse dal paziente sono obbliganti per il medico. Allora qui capiamo tutta la delicatezza, l’importanza e la crucialità di dare l’informazione sulla diagnosi e permettere che il paziente predisponga anche con le sue direttive il corso dell’azione. Con questo però non ho dato una ricetta di facile soluzione, anzi, è una ricetta di enorme ambiguità che mi permetto di illustrare con un esempio letterario che mi ha molto colpito, da parte di uno uno scrittore austriaco, Arthur Schnitzler, che ha scritto una novella, "Fuga nelle tenebre", cominciata nel 1905 ma tenuta in gestazione per 25 anni, dato che era una cosa che lo turbava moltissimo. La novella mette in scena un paziente, un personaggio che ha paura della demenza perché vede un suo commilitone che diventa demente, e ha paura di fare la stessa sorte; ha inoltre dei sospetti che potrebbe avere una predisposizione alla demenza. Allora fa un patto con il fratello che è medico, e gli chiede (leggo dalla novella qualche riga): "Al successivo incontro con Otto (che è il fratello medico) senza averne avuto prima l’intenzione, come seguendo un impulso repentino e irresistibile, Robert (il protagonista) si fece promettere dal fratello che qualora avesse visto manifestarsi in lui l’indomani o in un lontano futuro, i sintomi di una malattia mentale, lo avrebbe fatto passare subito dalla vita alla morte in modo sbrigativo e indolore; il che per un medico è sempre possibile. Otto dapprima si burlò del fratello considerandolo un incorreggibile ipocondriaco, ma Robert non si diede per vinto e disse che l’amore fraterno mai e poi mai avrebbe potuto rifiutare un simile servigio" (Quanto è attuale il problema! L’eutanasia su richiesta)
Poiché mentre in un altro caso il malato stesso era in grado di porre fine quando lo desiderasse, alle proprie sofferenze, un disturbo mentale degradava l’uomo ad abulico schiavo del proprio destino"Dunque per Robert avere questo impegno da parte del fratello era una garanzia di rimanere padrone del destino, del proprio destino; anzi, arriva fino al punto di consegnare una lettera liberatoria al fratello medico con cui lo dispensava da ogni responsabilità.
Ebbene, Schnitzel ha l’abilità di farci capire, anticipandole di parecchi decenni, tutte le problematiche delle advanced directives dei testamenti biologici. L’autore poi, utilizzando proprio l’idea che il fratello abbia una lettera con cui viene liberato da ogni responsabilità, mette in atto in Robert un processo paranoico per cui immagina che il fratello lo voglia uccidere e mano a mano che scivola nella demenza è sempre più preoccupato. Cerca di recuperare la lettera. La novella termina infine, con Robert che uccide il fratello Otto che va là per salvarlo.
Credo che attraverso questa anticipazione letteraria possiamo riflettere sulla complessità di questi temi; se anche pensassimo che le direttive anticipate siano la soluzione facile del problema dell’autonomia, abbiamo invece, attraverso questa visione letteraria, una visione di enorme complessità.
Tuttavia non possiamo non fare i conti con la modernità e dobbiamo comunque confrontarci con il problema della volontà della persona di mettere dei limiti alle cure.
6. Il diritto alle cure
Un ulteriore passaggio (qui solo brevemente tratteggiato, per motivi di tempo), riguarda un altro possibile messaggio che il malato di Alzheimer potrebbe rivolgerci: se noi ascoltiamo il malato di Alzheimer, ci facciamo dire chi è lui, non ci dice soltanto: "Io sono un malato", né solo "Io sono una persona malata e quindi ho diritto di decidere", ma ci dice: "Io sono un cittadino malato". Ciò implica riflettere sugli obblighi della società di fronte a questi cittadini; occorre quindi affrontae il tema della allocazione delle risorse, nonché delle tentazioni di eutanasia strisciante, come avviene ad esempio in Olanda, dove dalla "porta aperta" all’eutanasia che presupponeva una maggiore cura nei confronti dei pazienti che chiedono volontariamente la fine delle proprie sofferenze, si è arrivati invece a una percentuale crescente di malati mentali che vengono sottoposti a eutanasia.
Oppure come emerge da un recente articolo di tipo economico apparso sul New England Journal of Medicine, incentrato sui risparmi potenzialmente ricavabili dalla legalizzazione del suicidio assistito.
7. Confidate nella solidarietà
E’ poi essenziale, nella presa in carico del malato di Alzheimer, oltre all’intervento medico, l’attivarsi di una rete di solidarietà, attorno e nel vivo delle relazioni familiari, come ricorda anche Moni Ovadia, nella bellissima intervista che Cristina Beffa ha raccolto su Famiglia Oggi, rispondendo alla domanda: "Che cosa dire ai parenti dei malati di Alzheimer?" Risponde Moni Ovadia: "Tre parole: confidate nella solidarietà. Invece a tutti gli altri, musulmani, ebrei, cristiani, buddisti, ricordo che solamente la solidarietà salverà il mondo. E’ una responsabilità che coinvolge tutti".
Vorrei infine chiudere domandomi se c’è qualcosa in più, oltre agli obblighi etici che abbiamo come tutti i cittadini e non in sostituzione, ma direi quasi in aggiunta, se come cristiani abbiamo qualche obbligo in più o qualche cosa che ci specifica nei confronti dei malati di Alzheimer. La mia risposta vorrei darvela ancora una volta in maniera letteraria, citando uno scrittore che non è sicuramente sospetto di clericalismo, Ennio Flaiano. In un racconto suo Flaiano immagina che Cristo torni sulla terra e che venga assalito dai fotografi e dai cacciatori di autografi, nonché sociologi, psicologi, strutturalistici, cibernetici che accompagnano biologi, fisici e attori di cinema. "La folla cominciò a gridare: il miracolo! Gesù prese 5 pani e 5 pesci e con essi sfamò la folla. - Un altro miracolo! Gridarono dopo il pasto. Gesù sanò vari nevrotici, convertì un prete. - Ancora! Continuava la folla. Noi non abbiamo visto! Gesù continuò a fare miracoli. Un uomo gli condusse una figlia malata e gli disse : "Io non voglio che tu la guarisca, ma che tu la ami". Gesù baciò quella ragazza e disse: "In verità quest’uomo ha chiesto ciò che io posso dargli."Ciò detto, sparì in una gloria di luce, lasciando la folla commentare quei miracoli ed i giornalisti a descriverli".