La "gentle care" nelle varie fasi della malattia, Antonio Guaita

25/08/2010

 La "gentle care" nelle varie fasi della malattia

1) Dalla domanda contenitiva alla domanda riabilitava e verso la "gentle care"

La tolleranza e la comprensione sono un elemento completamente fondamentale, però da soli rischiano di trasformare qualunque cosa noi facciamo: che sia un servizio domiciliare o che sia un nucleo, in un puro contenitore magari bello, molto empatico ma risponde solo alla domanda: "dove metto questa persona". Allora, il fare una rete collocativa, costituire dei reparti che rispondessero semplicemente alla domanda collocativa, voleva dire non avere obiettivi da misurare. Voleva dire demotivare il personale; è così difficile mantenere dinamismo, di fronte all’assenza di evidenti gratificazioni e risultati, di fronte a questa mini-morte quotidiana di cui si è parlato spesso, dove nessuno fa le condoglianze, nessuno porta fiori, non ci sono riti e cerimonie, ma diventa quotidiano. Eravamo profondamente convinti che la risposta all’alternativa contenitiva era quella riabilitativa; però anche la riabilitazione da sola, pur essendo importantissima, come anche gli aspetti contenitivi naturalmente, presentava il pericolo di dare degli obiettivi impossibili e quindi creare una tensione che diventa alla lunga frustrazione; cioè ricreare una tensione verso obiettivi che comunque non raggiungeremo e che comunque possono togliere quegli elementi altrettanto importanti di tolleranza, di comprensione e di gratificazione per una équipe che è tutta orientata invece al raggiungimento degli obiettivi; obiettivi che poi durano poco, che poi si perdono, e che possono alla lunga diventare anch’essi dei motivi di demotivazione, di frustrazione per la persona, per la famiglia e per il malato stesso che viene spesso e continuamente messo di fronte alle sue insufficienze.
Fra queste due cose, la terza via è l’elaborazione del "gentle care" che abbiamo in larghissima parte ereditato e in piccolissima parte aiutato a ricostruire insieme ad un gruppo canadese guidato da Moira Jones che è una terapista occupazionale.
La "gentle care" è un concetto protesico; il fatto è che fra un approccio puramente riabilitativo e un approccio contenitivo, possiamo invece tentare una via in qualche modo di mezzo, che è quella di costruire una protesi di sostegno del benessere della persona.
Quindi non abbiamo come obiettivo semplicemente tenere lì le persone, non abbiamo come obiettivo però neanche il recupero funzionale, ma abbiamo come obiettivo il benessere. Non è puro nominalismo, quindi cercherò nel mio brevissimo intervento di dimostrare che dietro questo c’è anche un approccio metodologico nel tentativo di dare sostanza.
Naturalmente quando parliamo di protesi del cervello di una persona, perché l’Alzheimer è una malattia del cervello, non solo della mente, se si può fare questo dualismo, non possiamo parlare di una protesi semplice; non c’è nulla di semplice neanche in una protesi di gamba, protesi che dà la possibilità di mantenere più a lungo la funzione, magari con attività che non sono sostitutive in quanto aiuto a compiere ciò che si compiva prima; sono fortemente individualizzate e sono costituite da un insieme di mondi che nel caso appunto del cervello, abbiamo individuato in tre livelli che sono: una protesi d’ambiente, una protesi di persone, e una protesi di attività.


2) Disturbi di comportamento e relazioni

Io penso che all’interno dei vari motivi di sofferenza che ci sono all’interno della persona e della sua famiglia, fondamentali sono i disturbi del comportamento, nel senso che sono da una parte quelli che effettivamente impediscono una convivenza sociale serena di queste persone, dall’altra sono anche in qualche modo, l’espressione di ciò che avviene all’interno, di un modo di rapporto fra la persona e l’ambiente che ci parla dal loro interno; quindi diventa importante la lettura di come una persona si comporta, che va dall’espressione del viso al fatto se dorme o non dorme, se mangia o non mangia, se continua ad andare in giro, se urla, etc. (Non parlo mai di aggressività, poi vi dico il perché).
Questi disturbi, molto più che la loro causa in qualche modo diciamo fisiopatologica che è la perdita della memoria o la perdita delle funzioni cognitive, sono il vero punto da misurare. Abbiamo un metodo per la valutazione dello stress dei familiari al momento in cui entrano in contatto col nostro servizio; lo stress non è legato in nessun modo alla gravità né delle funzioni cognitive in sé misurate col "minimental", neanche alla gravità clinica della malattia di Alzheimer e neanche ai livelli funzionali cioè la quantità di dipendenza nell’attività quotidiana che il congiunto esprime.
 E’ invece fortemente correlata con la gravità, la numerosità e la frequenza dei disturbi del comportamento. Nessuno degli altri sintomi isolati ha la stessa forza nello spiegare lo stress dei familiari. Parlo di "disturbo del comportamento", non di aggressività, perché riferirsi all’aggressività è un po’ l’emblema degli errori che si fanno nell’approccio protesico perché tutti in qualche modo costruiamo una protesi vicino ad un malato di Alzheimer; ma per costruirla bene è meglio esserne coscienti.

3) Come leggere l’aggressività

Se noi costruiamo una protesi insufficiente, se a una persona non diamo un sostegno sufficiente nel costruirgli un ambiente, delle persone, delle attività che sono consone al suo specifico modo di vivere la demenza, e gli chiediamo continuamente prestazioni, possiamo avere dei comportamenti catastrofici, delle reazioni cosiddette aggressive; in realtà il termine "aggressivo" non va mai usato, è uno stato d’animo di cui noi non sappiamo niente. Possiamo parlare di comportamento magari aggressivo ma non di aggressività.
Nel 99% dei casi nella mia esperienza, si tratta di persone che si difendono e che leggono come aggressivo il nostro comportamento.
Io penso che lo sto aiutando a lavarsi la faccia, quello pensa invece che io sono quello che gli sta buttando l’acqua addosso. Io penso di essere quello che lo aiuta a mangiare, quello invece, magari, siccome sopra ad una certa altezza non vede, vede una mano con un cucchiaio che vagola nell’aria e che improvvisamente vuole infilarsi nella sua bocca!
Allora è chiaro che se anche a una persona che non ha le gambe e io gli chiedo insistentemente di fare dei gradini, questo per un po’ mi ascolta, poi si scoccia.
Quindi nel 90% dei casi una reazione catastrofica aggressiva di malato di demenza, specialmente demenza di Alzheimer, è la lettura del fatto che le domande che gli fanno l’ambiente, non sono appropriate al suo modo di vivere sé stesso, la sua malattia e non solo la sua biologia ma anche la sua biografia.

Ci può essere l’effetto contrario: un atteggiamento eccessivamente protesico, eccessivamente assistenziale, toglie delle funzioni a una persona e non gli dà lo spazio di un esercizio di quello che è una parte consistente della sua umanità nel rapporto con l’ambiente, nell’aver ancora la soddisfazione delle poche o delle tante cose fatte che non può fare, quindi c’è un processo di superdisabilità, di aumento della dipendenza legata a una protesi eccessiva, troppo tollerante, troppo sostitutiva.4) La necessità di conoscere la persona, non solo la malattia.
Naturalmente l’atteggiamento migliore io l’ho simboleggiato con l’atteggiamento del papà e della mamma, di chi tollera e di chi dà degli obiettivi, e di considerare comunque la persona nella sua interezza, nella sua storia e non solo nella sua malattia, quindi per seguire una persona non basta conoscere l’Alzheimer, non basta neanche conoscere il proprio mestiere, bisogna proprio conoscere la persona.
Questo per un medico è una scoperta drammatica perché dopo che uno fa sei anni di università, quattro anni di specialità dove gli dicono che le storie delle persone non contano niente, quello che conta è tutti gli elementi comuni che io trovo nel signor Uno, Due, Tre, Quattro e Cinque; per cui se hanno la tosse, il catarro e la febbre, tutti e cinque hanno la bronchite e questa, è la modalità epistemologica della diagnosi.
E’ chiaro che fare il percorso contrario e capire che quello che io devo fare per la persona è tornare dagli elementi comuni, conosciuti dagli elementi pur diagnostici e quindi non soltanto capire che tipo di malattia ha quella persona, ma che tipo di persona è quella che ha quella malattia.
Allora dovremmo cominciare probabilmente - visto che i mezzi ormai ci sono – con la costruzione di carte cliniche che sono anche cartelle biografiche, che sono multimediali. Ormai nei CD possiamo mettere dentro spezzoni di film, possiamo mettere dentro le foto, le voci dei familiari, e insieme con la cooperativa "La Meridiana" si sta infatti facendo questo progetto in cui facciamo le cartelle computerizzate multimediali con dentro le canzoni preferite, le voci dei familiari, le foto etc. e cerchiamo quindi di costruire una anamnesi più complessa da questo punto di vista.

4) Rapporti con i familiari

Perrò ci sono dei ma. C’è un’inchiesta fatta con tutti gli ausiliari che hanno partecipato ai corsi di aggiornamento della Regione, che già operano all’interno dei nuclei Alzheimer: sono 170 ausiliari. Il rapporto con i parenti viene giudicato problematico dalla metà delle persone. Il 90% dice: "no, anche potendo io non cambierei, non lavorerei in un altro nucleo, mi piace lavorare nel nucleo Alzheimer. Quasi tutte le risposte sono positive. Ma alla richiesta: "Il rapporto con i familiari com’è ?" "Problematico "Questo è un dato e c’è un bisogno di una formazione specifica che la Regione non ha ancora fatto e che cerchiamo di fare. Viene la tentazione di pensare che trattare bene il familiari vuol dire rispondere bene alla loro richiesta. Il che è largamente insufficiente rispetto a quello di cui c’è bisogno perché se voi vi mettete in uno stato d’animo di una persona che ricovera qualcuno anche temporaneamente presso di noi, capite che è assolutamente insufficiente. Quello che qualifica è l’iniziativa di comunicazione da parte dell’équipe nei confronti dei familiari. Quando uno chiede ha già dentro di sé la morte di aver dovuto chiedere, ha già dentro di sé la sensazione di essere stato escluso, di essere invisibile, di non contare niente etc., quindi una risposta gentile è meglio che una risposta sgarbata ma è ancora troppo poco. Quindi nel nostro programma i familiari, i volontari, chiunque passa per quel reparto, è parte integrante della protesi persona e quindi va costantemente informato e coinvolto ritualizzando le cose, per cui ogni tot comunque, si telefona a casa per dire come vanno le cose; l’accoglienza nel reparto è fatta magari con una tazzina di caffè, dopo la prima notte di ricovero in reparto, comunque il compito del medico o del capo reparto è quello di telefonare a casa e dire come è andata la prima notte e così via.

5) Le attività

Facciamo tutta una serie di attività. Qualunque cosa nella vita di una giornata può essere o no un’attività a sé; noi facciamo una quantità di attività necessarie, indispensabili e dobbiamo valorizzarle naturalmente. Guardare per gli anziani, non solo per i dementi, ma per gli anziani, è un’attività meravigliosa. Siamo noi che la sottovalutiamo. Avete mai girato per le strutture di ricovero ? Sono tutti o vicino alle finestre o vicino all’uscita. Io mi ricordo i miei, mia nonna che si metteva con la sedia davanti alla porta a vedere lungo la strada quello che succedeva, perché quando io faccio fatica ad andare a prendere la vita là dove devo andarla a prendere, mi metto nel posto dove la vita scorre e mi deve passare vicino. E il concetto è più o meno lo stesso. Ci sono le attività speciali, sono importanti, il giardinaggio e tutte queste cose si possono fare, ma non è tanto l’attività di gruppo, l’attività organizzata. E’ la continua occasione, sono i bauli dei tesori che noi dobbiamo lasciare in giro, che la gente può toccare, rovistare, può andare in giro. I vasi di fiori, i gerani che tutti si mangiano e che noi continuiamo a ripiantare. La signora Amelia ad una cert’ora deve andare a casa perché lei deve fare da mangiare ai figli; allora cosa c’è di meglio se non farle fare da mangiare? Si tranquillizza, è contenta, si esercita.

6) Protesi ambiente


Ultimo punto: la protesi ambiente e struttura. Anche qui teniamo conto di tante cose. Nella malattia di Alzheimer c’è una perdita della sensibilità ai contrasti nei colori e quindi fra i tanti elementi anche di questo possiamo tenere conto nella disposizione dei spazi e degli arredi, creando degli angolini che sono un po’ umani. La sicurezza è un problema fondamentale al domicilio. Noi al 25% delle persone che dimettiamo abbiamo cambiato casa: cioè casa loro gliela abbiamo modificata in qualche modo, non in maniera sostanziale ma ad esempio se uno tende a fuggire, si può trasformare la porta in un tromp-l’oeil (rendere invisibile la porta con l’aiuto di poster); questo fa si che le persone non siano attirate ad andare continuamente fuori, a dover sempre attaccarsi alla maniglia.
Alcuni dati: il 78% torna a casa in maniera definitiva; abbiamo una riduzione vicina al 50% dell’eccitazione senza il consumo degli psicofarmaci. Abbiamo fatto anche uno studio: siccome il nostro nucleo esisteva ancora prima del progetto regionale e prima dell’applicazione del "gentle care", abbiamo provato a fare un confronto prima e dopo l’applicazione delle metodiche protesiche e abbiamo notato una considerevole riduzione anche degli psicofarmaci. Un altro indicatore che teniamo monitorato per il successo o l’insuccesso del reparto è quanti familiari entrano nel reparto tutti i giorni. C’è un costante aumento di questo numero. Questa è anche la mia storia personale, ho messo piede in quest’istituto 27 anni fa. L’idea era che di fronte alla sofferenza, la grande sofferenza che si vedeva, bisognava né ridere né piangere, ma bisognava capire.
Direi che della mia esperienza con l’Alzheimer ho ricavato che se uno non è capace di ridere e di piangere, nemmeno riesce a capire. 

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