Non è necessario essere ebreo per...

"Parole chiare", uno straordinario volume di Giuntina, ci porta nei luoghi italiani della memoria. Gli scritti, acuti e toccanti, di Abbate, Affinati, Rossi-Doria, Goretti, Stancanelli,

27/01/2011
Le fotografie di Luigi Baldelli che qui pubblichiamo sono tratte dal volume "Parole chiare - Luoghi della memoria in Italia 1938-2010", edito da Giuntina.
Le fotografie di Luigi Baldelli che qui pubblichiamo sono tratte dal volume "Parole chiare - Luoghi della memoria in Italia 1938-2010", edito da Giuntina.

Normal 0 14 Il nome è Ferramonti. Era un campo di concentramento. Forse il più grande cile dovesse rispondere ai fabbisogni del razzismo italiano durante la guerra, il fascismo. Non c'é bisogno di essere ebrei, le sue principali vittime, per deside­rare di conoscerne la storia. Ora è il 2010. Le immagini del dopo non restitui­scono la verità, forse neppure i fatti, il tempo, non mostrano neanche le prove dei delitti, dei crimini, del razzismo Le immagini del dopo portano quasi una mano di biacca sulle tracce della sofferenza, dei reticolati, perfino della morte, delle storie personali, individuali, di un vissuto collettivo, degli esodi, delle liste diligentemente compilate in nome di una burocrazia fascista, ottusa, piccolo borghese, come altrove mostra la calce delle fosse comuni.

    Le immagini del dopo, sovente sono semplici fotografie: scatti, documenti, filmati sobbalzanti, istantanee tarlate dal purgatorio dei cassetti, degli archivi, dalle fioriture delle stagioni che toccano appunto anche gli arcllivi, e non riscattano la poca luce di speranza di quei giorni. Scatti di luoghi e volti immobili. O in movimento. E poi documenti privati. Di sopralluoghi. Di semplici pellegrinaggi. Sono la prova dell'essere riusciti a sopravvivere, fino al giorno del ritorno, proprio lì dove il crimine, la morte, la sofferenza hanno avuto luogo. Si sono mostrati. Hanno dimostrato l'iniquità della storia.

    Proprio a Ferramonti i luoghi, ma questo poco importa, nel frattempo sono mutati, qualcuno, perfino innocentemente, ha pensato bene, accuratamente, di cancellare ogni traccia, magari in previsione, appunto, di un mutamento, di una destinazione d'uso. La memoria, infatti, lo sappiamo, molto spesso non è ritenuta un bene necessario al mondo, alle idee. Forse perché la memoria e coscienza, consapevolezza di sé, e dunque serve a intuire il pericolo, a ribellarsi in tempo. Non mi sembra che il potere possa accettare questo genere d'uso della memoria, no? Si esclude che possa essere simile a un campo da coltivare, da tenere in ordine.

    

Ferramonti, un luogo. Qualcosa da affidare invece al minuto mantenimento del­la coscienza, della storia. E invece? Assai meglio rimettere "in ordine", nell'al­tro senso, quello della rimozione, l'esclusione della memoria stessa, appunto. Chissà se ricordo bene: una notizia di pochi anni fa, un trafiletto sulla pagina, pochi centimetri, ossia l'intenzione di realizzare una discoteca poco lontano dal campo di sterminio di Auschwitz. Se la memoria, appunto, non mi inganna. Sogni e bisogni del turismo giovanile polacco locale, si può dire così? I documentari che narrano dei campi di prigionia, chissà perché, mostrano sempre l'inverno. L'inverno della Dopostoria, direbbe un poeta, Pier Paolo Pa­salini. Ferramonti, certo. Ma anche quegli altri che servirono a raccogliere i re­pubblicani spagnoli dopo la fine della guerra civile, nel 1939: anche li l'inverno, il filo spinato, le baracche issate sulla spiaggia, o forse basterebbe dire soltanto l'inverno, come categoria assoluta della sconfitta.

     Ferramonti, i suoi luoghi ritrovati. Molto tempo dopo: la mano che indica un punto lontano. Laggiu, sì, esatto un laggiù della storia, della giustizia: " ... lag­giù avveniva questo, laggiù siamo morti". Una mano che ancora indica, e poi il silenzio, l'erba alta, l'erba dell'incuria, l'incuria che ha comunque salvato la memoria, o comunque un suo frammento, la prova evidente del delitto. Come nei terremoti. Come nelle stragi, come nella preparazione di uno sterminio. Non c'è bisogno di essere ebrei per averne coscienza. Una porta che cigola, con il suo battente sul vuoto, sul nulla. Come il vecchio che ne L'infanzia di Ivan di Andrej Tarkovskij mostra un chiodo, ciò che dell'intero suo mondo è riuscito a salvare dopo il passaggio delle armate tedesche, della svastica.

     Neve, fuoco, lo scheletro dell'inverno. Dice Bertolt Brecht: "Di queste citta, resterà il vento che le attraversa". Dice ancora sempre lui, il drammaturgo tedesco, 8recht, commentando una foto strappata dai giornali del 1945 dove figura un bombardamento aereo, dice nel suo L'Abici della guerra: "Ci sono stati, dal fumo si poteva vedere: i figli del fuoco, ma non della luce. Da dove venivano? Dalle tenebre. E dove erano diretti? Nel nulla".

     Ferramonti, un tempo. In realtà mi ero sbagliato, anche la Rete, cioè il web, ne mostra l'esisten­za, consegna un pezzo di memoria che riguardi il campo, racconta infatti che il nostro luogo è realmente esistito. Colpa mia, se ne ignoravo l'esistenza. O forse no, in un vecchio numero di A-Rivista anarchica, un articolo dedicato alla esperienza cosiddetta 'comunalista' dei liber­tari calabresi di Spezzano Albanese accennava proprio alla sua esistenza, alla sua memoria, come a un laboratorio umano. Saranno pure immagini scadute, tarlate, eppure ne hanno salvato il ricordo, la prova della sua esistenza. Sara davvero il caso di raccontarle, trasformare l'immagine in parola scritta. Lo faremo. Proveremo. Un tempo per conoscere un luogo, saperne di più, sempre un tempo, era normale schiudere le pagine dell'enciclopedia, facendo ritorno a un bianco e nero assoluto, tipografico. Oggi le tracce ti portano verso la Rete.

  

Ecco, ci siamo, ecco Ferramonti, ritrovo il campo dentro un ideale atlante. Qualcosa ho trovato. Su Wikipedia, l'enciclopedia autogestita del web. Leggo: "Il campo di internamento di Ferramonti, nel comune di Tarsia in provincia di Cosenza, è stato il principale (in termini di consistenza numerica) tra i numerosi luoghi di internamento per ebrei, apolidi e slavi aperti dal regime fascista tra il giugno e il settembre 1940, all'indomani dell'en­trata dell'Italia nella seconda guerra mondiale. Il campo fu liberato dagli inglesi nel settembre del 1943, ma molti ex internati rimasero a Ferramonti anche negli anni successivi e il campo di Ferramonti fu ufficialmente chiuso l'11 dicembre 1945". E ancora leggo: "L'inizio dell'attività del campo di Ferramonti comincia il 20 giugno del 1940 quando vi giunsero i primi due gruppi di profughi ebrei, provenienti rispettivamente dall'Austria e da Bratislava, i quali si erano imbarcati nella speranza di giungere in Palestina. Alla fine nel campo si sarebbero trovati 1.604 internati ebrei e 412 non ebrei.

    La decisione di collocare il campo in una zona insalubre e malarica deriva in realtà non da una ragione politica/razziale, ma da un interesse economico da parte del costruttore Eugenio Parri­ni, molto vicino a importanti gerarchi fascisti. La sua ditta, infatti, era gia presente a Ferramonti dove aveva ultimato dei lavori di bonifica. Dovendo costruire il campo di concentramento, Parrini fece in modo di utilizzare a questo scopo il cantiere già presente in loco e le baracche che ospitarono il primo gruppo di ebrei erano in realtà le baracche utilizzate in precedenza dagli operai impegnati nella bonifica. Euge­nio Parrini, costruttore anche del campo di concentramento di Pisticci, impose nel campo di Ferramonti un proprio spaccio alimentare in regime di monopolio e ai prezzi da lui stabiliti. La malaria fu endemica nel campo, ma, in base a quanto riportato dai rapporti degli ufficiali inglesi, non era di una forma particolarmente grave e non vi furono morti attribuibili esclusivamente alla malaria; problemi come malnutrizione, assenza o insufficienza di riscaldamento, e carenze igienico-sanitarie rimasero endemici.

    Il campo era costituito da novantadue capannoni situati   in un perimetro di circa 160.000 metri quadrati. Vi erano capannoni di 335 metri quadrati, con due camerate da trenta posti, e capannoni da 268 metri quadrati, che accoglievano otto nuclei familiari di cinque persone o dodici nuclei familiari da tre persone. Considerata la sua natura di luogo di detenzione, con una struttura a baraccamenti e una recinzione fatta da una stac­cionata di legno sormontata da una linea di filo spinato, le condizioni di vita nel campo tuttavia rimasero sempre discrete e umane. Nessuno degli internati fu vittima di violenze o fu deportato in Germania. Per questa sua peculiare caratteristica, lo storico inglese Jonathan Steinberg ha definito il campo di Ferramonti come il più grande kibbutz del continente europeo».

    In effetti gli unici deceduti di morte violenta all'interno del campo furono quattro vittime di un mitragliamento da parte di un caccia alleato che aveva scambiato il campo per una installazione militare (27 agosto 1943). "Gli internati potevano ricevere dall'esterno posta e cibo e, all'interno del cam­po, godettero sempre della libertà di organizzarsi eleggendo propri rappresentanti, di avere un'infermeria, una scuola, un asilo, una biblioteca, un teatro e una sinagoga. Diverse coppie si formarono e si sposarono nel campo, dove nacquero ventuno bambini. A conferma di que­sta sua storia di umanità, le relazioni degli ufficiali inglesi che entrarono a Ferramonti nel 1943 descrissero il campo di Ferramonti più come un piccolo villaggio che non un lager. Sempre in base alle loro relazioni, l'incidenza dei decessi per cause naturali avvenuti a Ferramonti fu bassa, dagli 8-12 decessi ogni 2.000 persone Gli ebrei deceduti nel campo sono stati re­golarmente seppelliti all'interno del piccolo cimitero cattolico di Tarsia dove ancora è possibile vedere alcune loro tombe...".

    

La copertina di "Parole chiare - Luoghi della memoria in Italia, 1938-2010" edito da Giuntina.
La copertina di "Parole chiare - Luoghi della memoria in Italia, 1938-2010" edito da Giuntina.

Dove sorgeva il campo, leggo ancora, nella sua area trovo adesso lo svincolo di Tarsia dell'au­tostrada A3 Salerno-Reggio Calabria. Questo'ha fatto sì che, complice l'incuria di molti, l'intero campo sia stato smantellato nel tempo e nessuna delle originali costruzioni è rimasta. Attual­mente l'area è stata sottoposta a vincolo e vi è stato posto un apposito museo, di proprietà del Comune di Tarsia, dove ogni anno viene celebrato il Giorno della Memoria. Il museo e formato da alcune sale contenenti quasi esclusivamente del materiale fotografico. Non è tutto, c'è poi un filmato, val la pena di raccontare le immagini che custodisce. AI centro della carta orografica d'Italia, proprio al centro, ecco Ferramonti: sull'ideale fibbia dello Stivale. Le immagini mi mostrano l'ingresso del campo, gli internati che con poche cose su­perstiti possono finalmente lasciare le baracche, tornare alla vita, al dopoguerra, alla pace, alla liberta. Escono, e sembra che tutti facendo ritorno alle proprie case, ai propri chiodi superstiti, guardino verso l'alto, il cielo, come in un "cammino della speranza", come in un cinegiornale di propaganda che voglia far credere appunto alla fine degli spettri della guerra, del nazismo con­segnato al magazzino della storia, acqua passata.

    Sono uomini, donne, sono bambini, ed eccoli che si intrattengono con i militari alleati. "Campo di concentramento", mostra l'insegna posta all'ingresso, piantata forse sull'azzurro ritrovato del cielo, sul contrasto del cielo. Dove vanno? Chi rimane saluta gli altri che si stanno incamminando, e intanto un pittore, la tavolozza fra le mani, sembra dire che è finalmente giunto il tempo di dipingere la pace. Ed ecco poi i rabbini, i loro paramenti, l'immagine festiva di una cerimonia nuziale, anzi, un filo che si riannoda, il filo dell'essere sopravvissuti al fascismo, alla guerra. La luce del presente storico. Rimangono ancora di quei giorni alcune foto: una tavola imbandita, dove la gente applaude; "Calabria", si legge sul muro.

    Chissà cosa suggeriscono ai ragazzi, alle scolaresche, che ancora adesso vanno in visita ai resti del campo? Sui documenti che narrano di Ferramonti, sembra anche di intravedere in dis­solvenza incrociata il Regio decreto-legge del 7 settembre 1938 destinato a "Provvedimenti nei confronti degli ebrei stranieri", la firma è di Vittorio Emanuele 111, sul foglio c'è modo di leg­gere di un'urgenza del regime, esatto, c'è "la necessità urgente di provvedere" alla "istituzione del consiglio superiore per la Demografia e Razza". Le pagine di un lavoro accurato destinato a ricordare la storia del campo di Ferramonti, così come sono state compilate dai ragazzi della scuola elementare di Spezzano Albanese, non dimenticano nulla, mostrano il volto di Adolf Hitler, si soffermano sulle origini storiche dell'anti­semitismo moderno, pronunciano il nome della Shoah, pongono Ferramonti nell'insieme di un ideale, eppure concreto, atlante topografico del progetto di sterminio del popolo ebraico - già, non è forse vero che ancora adesso uno dei luoghi dove, accanto alla villa di Wannsee, i nazisti immaginarono sempre nel concreto lo sterminio durante una "conferenza", prende il nome e le macerie della "topografia del terrore"? - un atlante che mostra anche il volto di Mussolini, la sua politica "antiebraica"; accanto alla planimetria delle baracche del campo, c'è la stufa della direzione del campo, e il capannone adibito a sinagoga, la lapide dedicata agli ex internati, il "triangolo rosso della deportata Ada Buffulini", le sue parole, "anche a volerlo raccontare è impossibile", la stella di Davide è rimasta incisa sulle lapidi che nel cimitero di Tarsia ricordano due ebrei morti nel campo, i bambini hanno realizzato una cronaca sinottica della storia dei campi di concentramento e di sterminio, così come hanno conquistato familiarità con i termini piu usati nei lager grazie a un glossario: che vorrà mai dire "Feierabend" oppure "Sommer­so"? Che vorrà mai dire "Fressen" o "Menaschka"?

     Le risposte corrispondono alla vita, alla salvezza, non è forse anche il titolo di un testo di Primo Levi, I sommersi e i salvati? L'articolo 4 del Regio decreto-legge recita: "Nelle scuole d'istruzione media frequentate da alunni italiani è vietata l'adozione di libri di testo di autori di razza ebraica"; la cronaca del campo custodi­sce le "regole" per il cosiddetto minuto mantenimento dell'ordine, della pulizia, forse anche del decoro: "Non oltrepassare, senza speciale permesso, i limiti del Campo", "Non detenere armi, passaporti, tessere ferroviarie, tessere postali, né gioielli o somme di denaro ...", "Non detenere macchine fotografiche, né apparecchi radio", "Non occuparsi di politica", "Serbare buona condotta, non dare luogo a sospetti e tenere contegno disciplinato", tutte disposizioni che sembrano dettate dal "buon senso", forse non diverse da quelle che, ancora oggi, sono previste, anzi, servono ad amministrare una qualsiasi istituzione totale, forse. Il tavolo del convegno dedicato dai ragazzi delle scuole elementari alla storia di Ferramonti era, leggo, "abbellito con portafiori di filo spinato".

Fulvio Abbate
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