27/01/2011
Marco Paolini in "Ausmerzen - Vite indegne di essere vissute".
“Non è un’operazione di archeologia storica, né volevo celebrare la Giornata della memoria. Sono sempre stato allergico agli anniversari, questi santi laici in calendario che servono solo per liberarsi del pensiero il giorno dopo. Questa vicenda, lungi dall’essere soltanto una storia complessa e poco nota, ormai lontana nel tempo, ha molto a che fare con noi e con il nostro lato oscuro, noi e il nostro rapporto con la malattia mentale, noi e parametri della cosiddetta normalità, noi e coloro che non riusciamo a guardare in faccia una seconda volta”.
Marco Paolini, l’artista veneto che ha portato in tv il teatro civile (dai tempi di Vajont ritorna sul grande schermo con Ausmerzen. Vite indegne di essere vissute, un monologo duro, stile “Paolini”, che il 26 gennaio va in scena dalle cucine dell’ex-ospedale psichiatrico “Paolo Pini” di Milano e trasmesso in prima serata su LA7, la vigilia dell a Giornata della Memoria. L’attore vuole subito avvertirci: il suo racconto è datato, certo, ma attenti, perché scomoderà le nostre coscienze, tenterà di provocare nello spettatore la domanda che noi spesso eludiamo: “Ma che farei io al posto di quella gente?”.
- Quale gente,Paolini?
“Anzitutto un’intera classe medica di un Paese, la Germania degli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso, che assieme agli psichiatri si rende complice dello sterminio di oltre 300 mila tra malati psichiatrici, handicappati e persone affette da malattie genetiche. Una strage che passò sottotraccia solo perché questa cifra non aggiungeva molto ai milioni di vittime dell’Olocausto e al giudizio della storia sul nazismo e la dittatura hitleriana. Insomma è la storia di ciò che la ‘brava gente’, professionisti, medici di famiglia, infermieri, non le sadiche SS, o gli spietati gerarchi hitleriani, sono riusciti a fare, tenendo in pace la propria coscienza. E’ la storia di tanti medici che mettono a morte i loro pazienti. E’ proprio ciò che descriveva Hannah Arendt nella “Banalità del male”. E vorrei evitare ciò che noi italiani riusciamo sempre a fare quando facciamo i conti con la nostra storia, e cioè darci quella sorta di auto-assoluzione preventiva: siamo stati, per esempio, colonialisti? Ma eravamo, comunque buona gente, diversa dagli altri”.
La vicenda che narrerà l’attore si consuma ufficialmente dal 1939 fino al 1941, quando lo stesso Fuhrer vi porrà fine, almeno in modo formale, ma che si protrae fino alla fine della guerra e oltre: si tratta dell’operazione Aktion T4 (detta anche “programma eutanasia”), dal nome dell’iniziale della via berlinese, la Tiergartestrasse, al civico 4, dov’era insediato l’Ente pubblico per la Salute e l’Assistenza sociale, e l’organizzazione (una specie di società a partecipazione statale) che studiò e attuò il programma nazista di eugenetica, cioè la soppressione di massa di bambini e adulti malati di mente o affetti da malattie genetiche, considerati inutili, appunto “vite indegne di essere vissute”.
Ma già nel 1933, in coerenza con l’ideologia dell’”igiene razziale”, la legge “sulla prevenzione della nascita di persone affette da malattie ereditarie” diede il via alla campagna di sterilizzazione di massa di questi pazienti. Si calcola che in soli sei anni furono non meno di 200 mila le persone affette da malattie mentali a essere sterilizzate.
Dal 1939 si passò alle cosiddette “uccisioni pietose” dei bambini al di sotto dei tre anni. Le segnalazioni dei casi sospetti al Dipartimento di Sanità del Ministero degli interni dovevano essere effettuate da ostetriche e pediatri. Per tranquillizzare i genitori dei bambini si spiegava loro che i figli malati venivano spostati in speciali sezioni pediatriche dove ricevevano cure innovative. Ma una volta internati in questi centri intermedi, dopo poche settimane, venivano trasferiti in altre sedi. E in esse, lontano da occhi indiscreti, venivano uccisi tramite iniezioni letali. Nei certificati di morte tutto veniva coperto con un “decesso per polmonite” o “per arresto cardiaco”. Quasi subito il programma di eliminazione si estese anche agli adulti. Dal 1940 le camere a gas sostituirono le iniezioni. Dal 1941, chiusa Aktion T4, i malati psichici continuarono ad essere sterminati, facendoli morire per inedia direttamente nei manicomi, risparmiando gas e farmaci-killer.
- Com’è nata l’idea di scrivere questo racconto?
“A provocarmi sul tema, due anni fa, è stato mio fratello Mario che lavora nel mondo della disabilità. All’inizio, pensando di farne un documentario, siamo andati sui luoghi della vicenda e a intervistare alcuni testimoni, come Alice Ricciardi von Platen, psichiatra tedesca, membro della commissione medica consulente al processo di Norimberga, e il suo collega Michael von Cranach che, per primo, ebbe il coraggio d’aprire gli archivi su questi fatti, rimossi per decenni”.
- Quindi una cronaca storica ma che interroga le coscienze, che ha a che fare con le nostre scelte quotidiane. Cosa si racconta sulla malattia mentale?
“E’ un dato di fatto che le guerre mondiali hanno comportato spaventosi aumenti degli indici di mortalità nei luoghi di detenzione psichiatrica, senza che ciò provocasse troppo scandalo. E in genere, i periodi di crisi economica, come lo era quello della Germania dell’ascesa del nazifascismo, fanno mutare i parametri e creano l’occasione perché certe idee possano trovare cittadinanza, tolleranza. Idee che dovrebbero, invece, essere messe al bando assieme a chi le propugna. Insomma è come se la crisi producesse un abbassamento d’attenzione delle coscienze”.
- E ciò può accadere anche oggi? I parametri possono ancora mutare?
“Io racconto una storia, non faccio attualizzazioni, né voglio lasciar alcuno spazio a parallelismi assurdi o a forme di determinismo storico. Ma, per esempio, mi pare che il discorso dei parametri sia riemerso solo pochi mesi fa quando un assessore regionale alla Sanità propose che i trapianti d’organi fossero inibiti a chi non superava un certo quoziente intellettivo. E non era l’anno scorso che si voleva chiedere ai medici la schedatura dei pazienti stranieri irregolari?”.
- Ma vede il rischio di nuove forme di “eugenetica”?
“Gli amici medici che hanno visto le prove dello spettacolo m’hanno espresso la frustrazione di chi osserva come i nostri servizi psichiatrici siano sempre più abbandonati a loro stessi. Oggi tocca alla sanità, domani, magari, all’inserimento dei disabili mentali nella scuola. In un momento di crisi e di tagli al servizio pubblico, si può anche mettere in discussione un modello d’inserimento che è uno dei fiori all’occhiello del sistema scolastico italiano, preso a esempio all’estero. Qualcuno ha riesumato l’idea delle classi differenziali, o no?”.
- Insomma non avremmo ancora imparato la lezione?
“Voglio solo dire: attenzione, certe cose sono già avvenute. Non ricadiamoci. Com’è che nelle piccole comunità, nei paesini, fino a ieri non esistevano i ricoveri per i malati di mente, e col ‘matto’ si conviveva senza problemi? In quella logica il parametro scompariva e rimaneva solo la persona. Il mio monologo vuole muovere proprio questa empatia verso la persona, che sembra sopire sotto la spinta delle urgenze personali e della crisi, quando il rischio è quello di perdere lucidità e ragionare ‘con la pancia’, preoccupati solo di noi stessi”
- I medici nazisti applicavano il “Programma eutanasia”. Oggi si dibatte attorno alla stesso termine. Il rischio è sempre quello di voler ridefinire, per legge,“le vite che sono indegne di essere vissute”…
“Il termine eutanasia che risuona nel mio lavoro non ha assolutamente il senso che il dibattito attuale dà alla stessa parola e sul quale s’è divisa l’Italia un anno e mezzo fa”.
- Ma sul “fine vita” Marco Paolini che pensa?
“ Non ho certezze. Qual è il confine tra accanimento terapeutico ed eutanasia? Troppo spesso si trasformano queste esperienze dolorose in categorie, senza avere un’idea di cosa significhino. Chi non ha vissuto sulla propria pelle questi problemi abbia almeno l’umiltà di parlarne a bassa voce. Se guardo, poi, come il dibattito e la pratica eutanasica si sono sviluppati in certi Paesi, come l’Olanda ad esempio, resto davvero perplesso. Ancora una volta la “brava gente” riesce a compiere atti terribili”.
- Nel 1941 vi fu chi si oppose allo sterminio “eugenetico”. Che accadde?
“Che l’arcivescovo di Münster, Von Galen, tuonò contro il piano e l’impatto del suo intervento fu così deflagrante che costrinse Hitler a rinunciare al T4, chiudendo le camere a gas dei manicomi. Ciò dimostra che una sola voce, purché autorevole, può molto. Come, all’opposto, molto potè la scelta individuale di chi aderì al progetto”.
- I responsabili e i collaboratori del progetto furono processati a Norimberga. Come ne uscirono?
“Medici e funzionari non subirono pene esemplari. Paradossalmente, meglio così: quelle sentenze ci impediscono di pensarli come criminali appartenenti a un’altra galassia e ci è più facile vederli come la ‘brava gente’. Come potrei essere io, o i miei vicini di casa”.
Alberto Laggia