Le confessioni di Esperanza

La Spalding si racconta a 360 gradi: la voglia di miscelare jazz e pop, il successo, la scelta di schierarsi con Obama, Pat Metheny, l'amore per Picasso e i libri. VIDEO.

01/04/2011
Esperanza Spalding in concerto.
Esperanza Spalding in concerto.

   L'incontro con Esperenza Spalding è fortunato: la musicista americana, una delle realtà più innovastive della scena musicale, ha voglia di parlare e di raccontarsi.

- Il tuo ultimo disco, «Chamber Music Society», incuriosisce anche solo per la scelta del titolo, sembra un manifesto programmatico di un certo tipo di musica. In realtà contiene coordinate ben altre da quelle che ci si può aspettare. Qual era il tuo intento?

«Esattamente ciò che dico nel titolo, volevo dar sfogo al mio amore per la musica da camera, perché sono cresciuta con quel tipo di musica, infatti per dieci anni ho suonato musica classica prima di scoprire il jazz, ma soprattutto il contrabbasso e le possibilità che questo strumento mi dava di improvvisare. Tuttavia uno degli obiettivi principali che mi sono imposta per questo disco era riuscire a creare un melange musicale che avesse appiglio su quel tipo di audience a cui piace ascoltare la musica da classifica, quella più commerciale nel senso di popolare, che si ascolta nelle radio e nei programmi televisivi, cercando però di innestare qua e là elementi più vicini all’armonia jazz che a me piacciono molto, cercando di non far sembrare il tutto troppo sofisticato o snob. Perché c’è un aspetto della musica da camera che sfugge, questa si presta bene a un infinito scambio culturale con altri accenti e linguaggi musicali. Può contenere, entro confini fittizi, flagranze, tonalità e pulsazioni di qualsiasi altro stile. Quindi il presupposto di partenza per cercare di raggiungere l’obiettivo prefissato era anche che questa camera fosse una specie di gigantesca hall di albergo».

- Sei diventata un fenomeno, tutti ti riconoscono. Cosa rappresenta per te avere così tanto successo, te lo aspettavi?
«Francamente, no, perché a un certo punto della mia carriera, dopo aver studiato violino a Portland per una decina di anni, finii al Berklee College of Music di Boston, e contemporaneamente iniziai a suonare più o meno professionalmente con un bel po’ di artisti. Sono finita a insegnare abbastanza presto così pensavo che avrei passato la vita a suonare con musicisti di assoluto livello e insegnare ai ragazzi come potersi ricavare un ruolo determinante in ambiente musicale. Tuttavia non avevo mai pensato di diventare così conosciuta per dei miei lavori. Non posso che esserne contenta e sperare che la gente continui a venire ai miei concerti».

- Eppure permettimi di osservare che se si analizzasse un poco la tua esperienza, nella formazione con cui hai registrato quest’ultimo disco e con cui ti sposti in tour pur essendoci qualche nome importante (Milton Nascimento e Terri Lynne Carrington ma soltanto nell’album), hai cercato proprio di focalizzare l’attenzione dell’ascoltatore quasi esclusivamente su te stessa…
«Non ho mai pensato fosse giusto utilizzare le mie amicizie e i miei rapporti professionali per cercare di mettermi in mostra. D’altro canto non ho neanche coscientemente deciso di non creare una super band per farmi accompagnare. Ho semplicemente scelto una serie di musicisti che pensavo potessero rappresentare al meglio la musica che volevo realizzare. Credo che la vita sia la ricerca costante di un equilibrio, se si va di qua si rischia di finire in un burrone, se si va di là si può affogare. Meglio tenersi in equilibrio, che non vuol dire galleggiare nella mediocrità, ma essere coscienti dei propri mezzi. Nel parco delle collaborazioni, materia nella quale - come dicevi prima - sei stata molto attiva, si possono citare una quantità enorme di musicisti importanti».

- Come hai fatto a rimanere così equilibrata? Ce n’è qualcuno con cui invece non sei mai riuscita a lavorare, ma ti piacerebbe coinvolgere nei tuoi progetti?
«Ho sempre creduto che la genialità sia spesso in contrasto con la realtà. Troppo spesso grandi menti sono rimaste bruciate dalla loro poca concretezza. Se invece si cercasse una connessione con la terra che si calpesta, vuol dire che si sta cercando di essere concreti. Non credo di essere un genio, ma sono convinta della mia concretezza. Detto ciò la lista dei musicisti che trovo interessanti e con cui mi piacerebbe lavorare è infinita e non è detto che prima o poi non riesca a convincerne qualcuno. Comunque mi pare sia già molto quello che ho fatto in passato, ne cito qualcuno: Milton Nascimento, McCoy Tyner, Wayne Shorter, Joe Lovano».

- Particolare fu però il tuo incontro con Pat Metheny…
«Eravamo al college, al Berklee, e Pat era con Gary Burton, stavano producendo le registrazioni di un ensemble di noi studenti. A un certo punto Metheny si rivolse a me, stavamo discutendo su come affrontare alcune composizioni e mi chiese cosa avrei voluto fare della mia vita. Io risposi che stavo pensando di lasciare la musica e che mi sarebbe piaciuto occuparmi di politica. Dopo qualche secondo mi disse che non avrei dovuto farlo, secondo lui avevo l’x factor. Metheny si interessava molto allo stato d’animo dei giovani di cui si circondava».

-  Quali sono i tuoi idoli musicali, soprattutto i tuoi riferimenti per il contrabbasso e la voce?
«Mi è difficile rispondere, fondamentalmente non ascolto molto i contrabbassisti, ma in generale quando ascolto musica che mi piace faccio così: con la voce cerco di eseguire la melodia, che sia essa risolta dal pianoforte o qualsiasi altro strumento a fiato, e seguo le linee di contrabbasso. In passato ho trascritto molta musica, ma soprattutto mi sono focalizzata sullo studio approfondito del sax alto di Cannonball Adderley, mai credo di aver trascritto unicamente le linee di basso. Per la voce le coordinate che ho seguito sono da sempre radicate nella cultura black, ovviamente con un occhi di riguardo alla cultura rap con la quale sono cresciuta, ma come non citare tutti i grandi esponenti del soul».

- Non credo tu sia proprio una persona con molto tempo libero a disposizione, quali sono i tuoi interessi al di fuori della musica?
«In realtà ne ho diversi, le mie passioni più forti sono vivere a contatto con la natura e l’arte. Divoro libri e appena posso vado a mostre e vernissage».

- Chi è il tuo artista preferito?
«Nasco in quartiere piuttosto malfamato di Portland e sono un miscuglio di razze, di tratti ispanici, americani e africani e per di più sono cresciuto a contatto con una donna di Cuba. La mia arte di riferimento non può che essere quella dell’arte africana, lì si rievocano esattamente tutte le mie radici, si recupera lo spirito ancestrale ma non solo. Inoltre ho sempre amato molto l’arte di Picasso, il suo essere artista in tutte le scelte e i momenti del suo percorso mi ha molto affascinato, è stato di grande aiuto conoscere la sua vita d’artista, soprattutto nei momenti difficili. Se non avessi dedicato la tua vita alla musica cos’altro avresti potuto fare? Sicuramente un lavoro a contatto con la natura e gli animali, magari avrei avuto una fattoria o mi sarei occupata di giardinaggio. Mi interesso anche molto della politica del mio paese, non solo perché mi sono esibita in favore di Obama recentemente, ma perché spero si possa recuperare un senso della vita più intimo e profondo proprio nel rispetto della natura. L’ecologia è in fondo questione di equilibrio. Però confesso che ho avuto poco tempo a disposizione per pensare ad altro rispetto alla musica. Considera che quando ero ancora a Portland oltre gli studi accademici avevo sei o sette formazioni differenti, tra cui due settetti, un trio e una band fusion che si chiamava Noise For Pretend, con la quale registrai persino due album e che nei club della città aveva molto seguito».

Federico Scoppio
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