02/03/2011
La cantante israeliana Noa durante un concerto.
Napoli e Tel Aviv. In fondo non sono due città così diverse e distanti. A pensarla così è Noa, che alla città partenopea ha dedicato il suo nuovo album, Noapolis. Noa sings Napoli. In questo lavoro discografico la cantante israeliana rilegge in chiave personale i classici della canzone napoletana, da Torna a Surriento a Era de maggio, calandosi perfettamente nel dialetto e nello spirito di questi brani. Il cd, che viene presentato in anteprima mondiale in un concerto a Napoli il 3 marzo, è frutto della collaborazione di Noa con Gil Dor e il quartetto partenopeo Solis String Quartet. Famosa nel mondo anche per il suo impegno in favore della pace e della convivenza fra israeliani e palestinesi, alla vigilia del concerto napoletano Noa racconta del suo rapporto con la tradizione musicale partenopea e riflette sulla situazione in Medio Oriente e sulla rivoluzione del mondo arabo.
Nel booklet dell'album Noapolis ha scritto un bel messaggio rivolto agli abitanti di Napoli. Pare proprio che lei abbia un rapporto stretto con questa città.
«Sì, ho creato molte amicizie in tutta Italia nel corso degli anni in cui ho suonato e viaggiato in questo Paese, soprattutto nel Meridione, da Napoli alla Sicilia. Quando ho cominciato a esibirimi in Italia è stato in Sicilia, la mia promoter è di Catania. Poi mi sono mossa verso Napoli, adoro la Costiera amalfitana, Capri, una delle zone più belle del mondo. Parlare di bellezza in rapporto a Napoli, con tutti i suoi problemi, oggi potrebbe sembrare un paradosso. Ma la bellezza è dappertutto, nelle strade, nei negozi, nei caffè. E' nostro compito scoprirla intorno a noi».
La canzone napoletana vanta una lunga e prestigiosa tradizione popolare in Italia. Confrontandosi con questa tradizione si è assunta una grande responsabilità, se ne è resa conto?
«Sì, certo! Per questo ho dovuto fare molta attenzione. Il mio approccio è stato prendere queste canzoni con tutto il rispetto che meritavano, senza cercare di farle diventare quello che non sono, ad esempio brani pop o canzonette che tutti possono canticchiare. Ho voluto entrare nello spirito di quelle canzoni, ascoltandole con molta attenzione, tirando fuori la loro anima. E per è un grande onore aver ricevuto il supporto e l'approvazione dei napoletani».
E' stato difficile penetrare nello spirito del dialetto napoletano?
«Sì, ogni volta che ti inoltri in una lingua che non è la tua ti trovi di fronte a una sfida. Ma penso di averlo fatto piuttosto bene! Prima di tutto, perché l'ho fatto con grande amore. Secondo, ho un buon orecchio musicale e apprendere un accento è come imparare la musica, non si tratta semplicemente di riprodurre delle parole ma di imparare la melodia di quelle parole. Inoltre ho avuto un grande aiuto dai miei amici napoletani che sono stati i miei maestri. Molte persone di Napoli mi hanno detto che ho fatto un buon lavoro e credo che il mio vantaggio sia il fatto di essere un'outsider, una straniera, una che non parla la lingua italiana. Forse un italiano tenderebbe a spingere quelle parole dialettali nella direzione della lingua italiana; per me il napoletano è come una lingua nuovo, non un dialetto, e l'ho appreso cercando di rispettarne tutte le sfumature fonetiche».
Lei dice che Napoli e la sua città, Tel Aviv, hanno molte cose in comune. Ma si potrebbe dire che, in fondo, tutte le città che si affacciano sul Mar Mediterraneo si assomigliano...
«Sono d'accordo. La vicinanza al mare ha un'enorme influenza sulla vita delle persone. Il mare gioca un ruolo molto importante nella mia vita: a Tel Aviv quasi tutti giorni cammino spesso sulle rocce lungo la costa e in riva al mare trovo spesso idee e ispirazione. Mia figlia più piccola, nata pochi mesi fa, si chiama Yum, che in ebraico significa mare, un elemento fondamentale della mia vita e, credo, nella vita di tutti. Chi vive sulla costa è spontaneamente più aperto alle altre terre e culture, come una finestra sul mondo, grazie alla circolazione di persone, cose, navi, idee. Chi vive sul mare, inoltre, è un sognatore: non si può guardare il mare e non sognare, non coltivare l'immaginazione, non pensare a ciò che si nasconde oltre l'orizzonte. Questo vale per i migranti che si affidano al mare per cercare un futuro migliore, e per le persone dall'altra parte del mare che accolgono i migranti. Il mare rende anche più fragili perché chi vive sulla costa è esposto agli invasori, alle armi, alle guerre, come è successo a Napoli, a Tel Aviv, a tutte le città portuali del Mediterraneo».
Come israeliana, come guarda a tutto ciò che sta accadendo nel mondo arabo? E quali possono essere le conseguenze di questi cambiamenti sul suo Paese?
«Sono piena di speranza. Certo nessuno può predire come finiranno le cose. Ma, dato che questa rivoluzione non ha origine in un movimento politico e religioso, spero davvero, e prego che sia così, che il cambiamento porti un reale progresso nel governo di questi Paesi e, soprattutto, nella qualità di vita della gente che, sono sicura, ci aiuterà a raggiungere la pace nella nostra regione. Sono convinta che molte persone nei Paesi arabi guardano Israele, la nostra democrazia, il nostro sistema giudiziario, il nostro sviluppo industriale e commerciale e pensano: "perché non possiamo essere così anche noi? perché non possiamo cambiare?". Io spero che a un certo punto tutti i Paesi della regione raggiungano un sistema politico ed economico ugualmente sviluppato, in modo tale che israeliani e arabi possano confrontarsi alla pari, sullo stesso piano. In questo modo sarebbe più facile comunicare. Un'altra considerazione: si è sempre posta eccessiva attenzione sul conflitto israelo-palestinese come priorità assoluta, quando invece non è così. La rivoluzione in vari Paesi, dalla Tunisia all'Egitto, ha cambiato la prospettiva e dimostrato che nel mondo arabo ci sono molti altri problemi alla base, che gli egiziani, ad esempio, vivevano nella frustrazione. E soprattutto che Israele non è il nemico numero uno e non è il responsabile di tutti i problemi della regione. Ho fiducia che, in questa nuova prospettiva, forse anche gli israeliani si libereranno dalla paranoia di essere attaccati da tutti, paranoia che blocca la possibilità di raggiungere la pace».
Ha tre figli, come riesce a gestire la vita professionale e quella familiare?
«Devo dire che oggi viaggio molto meno di un tempo, ho molto rallentanto la mia carriera. Quando sono in giro per lavoro in genere porto con me i miei figli, una volta il figlio più grande, un'altra volta la secondogenita. Ovviamente la più piccola, Yum, adesso è sempre con me. Anche mia madre viaggia spesso con noi. Ho poi l'assistenza di una ragazza israeliana e il grande aiuto di mio marito, che è un medico e un padre stupendo. Per me fare musica è una vocazione, una missione. Ma i miei figli sono più importanti. E devo lavorare duro, faticare molto e scendere a compromessi per continuare a lavorare ma senza mai venire meno al mio compito di madre».
Giulia Cerqueti