29/09/2010
Eraldo Affinati commenta "Le rondini di Montecassino" di Helena Janeczek. Nata in Germania, la scrittrice vive a Milano.
Per Helena Janeczek, nata a
Monaco di Baviera da genitori
ebrei polacchi, scrittrice italiana
da quando, diciannovenne, si
trasferì a Milano, la letteratura è
uno scavo lacerante nelle radici
divelte. Finora ha pubblicato tre
libri in cui questo tema alimenta
la sua spinta espressiva: Lezioni
di tenebra (1997) partiva dall’esperienza
della madre,
sopravvissuta
ad Auschwitz;
il secondo, Cibo
(2002), sembrava
l’illustrazione
biologica del primo,
come se tutto
quello che
mangiamo fosse il disegno nascosto
della nostra identità.
Con Le rondini di Montecassino
(Guanda) si compone un trittico originale
e suggestivo.
La grande battaglia
della Seconda guerra mondiale
che, lo sappiamo, venne
combattuta e vinta dall’esercito
multinazionale antinazista, nelle
cui file si distinsero i polacchi,
rivive attraverso le vicende di numerosi
personaggi: il sergente
John Wilkins, texano,
morto subito dopo il
passaggio del fiume Rapido;
il soldato Charles
Maui Hira, del battaglione
maori, neozelandese,
sulle cui tracce si mette il
nipote Rapata Sullivan;
Edoardo Bielinski, cittadino
italiano di padre
polacco, insieme all’amico
Anand Gupta; Irka,
zia dell’autrice, corteggiata
da Zygmunt Szer
nell’inferno del gulag sovietico;
Dolek, medico nell’armata del generale
Anders; il caporale Samuel
Steinwurzel, sepolto a Milano
nel cimitero di Musocco: suo
figlio, Gianni, abita ancora nella
casa di via Bramante, in mezzo ai
cinesi, che rappresentano un futuro
imperscrutabile.
Helena Janeczek, intrecciando
cronaca e invenzione, non esita a
entrare in scena anche personalmente,
specie quando riferisce
del padre, «mio soldato immaginario
», che in realtà non partecipò
mai alla battaglia di Montecassino,
ma fu costretto
a cambiare nome
per poter sopravvivere
e mettere al
mondo lei, futura
scrittrice, aggiungo
io, di questo implacabile
referto.
Ecco perché, nelle
pagine finali, di
rara intensità, leggiamo
che «ai nostri
padri non possiamo
più domandare
niente. Possiamo
solo ricordare le loro vite e
le loro verità, anche quando assumono
la forma della diceria
inverificabile, o si ricoprono della
pietà mai abbastanza grande,
mai abbastanza impermeabile,
della menzogna».
Eraldo Affinati