22/06/2012
La collaborazione è il tema di "Insieme" di Richard Sennett.
L'ALFABETO DELL'ETICA
2. Collaborazione
L'intervista a Richard Sennett sulla collaborazione è la seconda tappa della serie "L'alfabeto dell'etica", un'indagine sulle parole
e i concetti da riscoprire per orientarsi di fronte alle sfide del nostro tempo. La serie è stata inaugurata dalla conversazione con Laura Boella sull'immaginazione come facoltà morale, pubblicata il 19 giugno scorso. La terza puntata sarà sulla compassione.
«La collaborazione rende più agevole
il portare a compimento le cose
e la condivisione
può sopperire
a eventuali carenze individuali»
(
Richard Sennett,
Insieme)
Richard Sennett ricorda un po’ quelle figure rinascimentali in grado di dominare uno scibile sconfinato e interdisciplinare. Ad alimentare l’impressione è anzitutto una ragione di curriculum, il fatto che, prima di diventare quel sociologo e quel professore famoso che oggi è, sia stato un violoncellista e un direttore d’orchestra a livello professionistico. E lo conferma, a ogni pagina, la lettura del suo straordinario saggio Insieme (Feltrinelli, pp. 334, euro 25,00), una delle più esaustive e approfondite ricerche che siano mai state realizzate sul tema della collaborazione, in cui nozioni sociologiche, filosofiche e storiche si intrecciano felicemente con la narrazione di esemplificazioni desunte da interessanti indagini sul campo.
Professore di Sociologia alla London School of Economics e alla New York University, Sennett è impegnato da alcuni anni nella stesura di una trilogia sulle abilità tecniche che occorrono nell’esistenza di tutti i giorni. Il primo atto coincide con L’uomo artigiano (Feltrinelli, 2008), presto divenuto un classico sull’”arte del fare” e del “saper fare”; il terzo verterà sulla costruzione delle città; il secondo è questo fondamentale Insieme. Sulla centralità, necessità e urgenza di questo tema non occorre spendere molte parole: semplicemente, se l’umanità sapesse collaborare meglio, non si troverebbe invischiata nei mali che ci stanno affondando, dalla recessione economica ai conflitti etnici al razzismo alla disuguaglianze...
È interessante notare che l’attenzione su questo tema si fece strada nella mente dell’autore proprio mentre studiava le abilità tecnico-artigianali dell’uomo: «Rimasi colpito dalla presenza ricorrente di una particolare dote sociale preziosa nello svolgimento di attività pratiche: la capacità di collaborare».
Altre due osservazioni, prima di dare la parola a Sennett. È bello scoprire, nella sua indagine, che la collaborazione è, sì, una modalità da acquisire, coltivare e sviluppare, ma anche una predisposizione innata, naturale nell’uomo: si tratta quindi di evitare che venga, appunto, snaturata e di mettere in atto quella che lui chiama una “diplomazia quotidiana” della cooperazione, con l’ausilio di una serie di strategie. Infine, ricordiamo che la parola utilizzata nell’originale è cooperation, ricca di suggestioni che, forse, in parte vengono perse (lost in translation!) nella traduzione italiana, benché anche il termine collaborazione – “lavorare insieme ad altri” – possieda un forte potere evocativo e ben alluda all’origine fattuale, pratica della ricerca.
Richard Sennett. Fra i suoi saggi, ricordiamo: "Il declino dell'uomo pubblico", "L'uomo flessibile", "Rispetto. La diginità umana in un mondo di diseguali", "La cultura del nuovo capitalismo", "L'uomo artigiano". Tra i molti riconoscimenti ricevuti, l'Hegel Prize alla carriera nel 2006.
Professor Sennett, viviamo nell’epoca dell’individualismo e del
neoliberismo, e lei ci viene a parlare di collaborazione...
«(Ride, ndr). Lo faccio perché non si tratta di una caratteristica che è
scomparsa dalla faccia della terra, ma che, piuttosto, viene repressa
dal sistema neoliberista. Ciò che ho voluto fare nel mio libro è
mostrare alcune applicazioni pratiche della collaborazione, nel contesto
di una società complessa, in cui i rapporti sono difficili».
Lei dice che il capitalismo storicamente ha indebolito la tendenza alla
cooperazione fra gli individui...
«Non esattamente. Nell’ultima generazione si è verificato un’involuzione
notevole all’interno del capitalismo, migrato da una forma sociale a
una neoliberista. Il problema è che tale involuzione non è sostenibile
socialmente».
A dispetto di quanto si possa immaginare, lei sostiene che competizione e
collaborazione non sono incompatibili...
«Non deve sorprendere. Quando da bambini giocavamo dividendoci in squadre, sapevamo
che per far funzionare il gioco era necessario osservare alcune regole. E
che ogni genere di competizione richieda regole ne abbiamo esperienza
anche da adulti, ogni volta che si verifica un conflitto: sappiamo che
per dirimerlo abbiamo bisogno di trovare un terreno comune. Il mio
atteggiamento critico nei confronti del neoliberismo si fonda proprio
sul fatto che esso reprime questo concetto di collaborazione. Il caso
della Goldman Sachs è un esempio del tradimento della fiducia del
cliente, che aveva investito e affidato le sue risorse. Nella
quotidianità siamo continuamente chiamati a trovare un equilibrio fra
competizione e cooperazione. Dobbiamo negoziare ad ogni passo. E
dall’esperienza della negoziazione nasce l’idea di giustizia».
Par di sentire quanto dice Amartya Sen nel suo L’idea di giustizia...
«Ho imparato molto da lui».
Lei parla di collaborazione come perizia, come abilità pratica. C’è
dunque una connessione con il suo precedente lavoro sull’Uomo artigiano?
«Esattamente. Ho provato a dimostrare che la conoscenza che abbiamo di
come realizzare cose concrete è anche conoscenza di come comportarci
socialmente. Il che implica che la predisposizione ad avere buoni
rapporti sociali è insita nelle nostre abilità tecniche di realizzare
prodotti artigianali».
Anche perché – lei scrive nel suo saggio – la collaborazione è
un’attitudine innata nell’uomo, benché abbia bisogno di essere coltivata
e acquisita.
«Dobbiamo re-imparare la collaborazione, perché viviamo in una
situazione in cui essa è stata repressa dalle istituzioni».
Dobbiamo tornare bambini?
«Oh, no... (e ride, ndr)».
La copertina del saggio di Richard Sennett.
Si respira comunque ottimismo nel suo libro, dato che è convinto che la
pratica della collaborazione sia più diffusa di quanto immaginiamo.
«È dovunque. Non potremmo attraversare la strada, senza di essa... Non
potremmo educare i figli, avere amici... È dovunque. Se, tuttavia, ci
trasferiamo nella dimensione dell’economia, improvvisamente scompare».
Quale relazione sussiste fra collaborazione e creatività individuale?
L’una sostiene l’altra o si spengono a vicenda?
«Ottima domanda. Devo darle una lunga risposta. E credo si tratti di
argomenti interessanti per una rivista cattolica. Nel cattolicesimo,
nell’ebraismo e nell’islam la collaborazione non è una scelta personale,
bensì un rituale che si dipana all’interno della comunità. La rivoluzione
protestante ha creato un nuovo paradigma, proprio in ragione del fatto
che essa è diventata una scelta e il rituale viene sostituito da una
volontà individuale. Questo è il mio argomento contro Max Weber. Ha qui
inizio la modernità, per la quale le relazioni sociali vengono dall’io,
non dall’esterno. Un esempio: se tu hai bisogno di me e mi chiedi
qualcosa, io posso chiedermi se ciò mi dà piacere, anziché considerarlo
semplicemente un dovere. Secondo la mia visione, in ciò è racchiuso un
nodo irrisolto: come è possibile desiderare di collaborare? Cioè come
coniugare la scelta libera e individuale con la “necessità” di
collaborare, il mio desiderio individuale con il rapporto con chi è
diverso da me? Se ho timore degli stranieri, della classe operaia o in
generale di chi non conosco, non avrò alcun desiderio di cooperare con
loro. Se invece sono un bravo cattolico, un bravo ebreo e o un bravo
musulmano ciò non costituirà problema, in quanto sono tenuto a farlo. A
mio giudizio qui si nasconde una delle principali questioni del nostro
tempo. Ha letto le pagine in cui racconto di quell’ambasciatore
cattolico che dice al re che ha l’obbligo di non separarsi dalla moglie?
La risposta del re è: ma io non voglio restare con lei. Ecco l’epoca
moderna: come possiamo collaborare per superare l’impasse? Ha mai letto
l’opera del sociologo francese Bruno Latour? Sostiene che noi
contemporanei in realtà non siamo ancora moderni, in quanto non abbiamo
risolto il problema del rapporto fra la capacità, l’abilità di una
persona e il suo desiderio».
La collaborazione consente di rapportarsi all’altro superando le
differenze: può essere assunta come una modalità preziosa per affrontare
le sfide di oggi, che ci espongono costantemente al contatto con
l’altro da noi?
«Certamente. Nel mio libro ho elaborato una filosofia basata sulla
diplomazia nella vita quotidiana, sulle tecniche utili a mettere in pratica
la collaborazione».
Scrive anche che la collaborazione ha una valenza etica, eppure l’etica
non riesce a spiegarla completamente...
«È così, per la ragione che le tecniche della collaborazione possono
essere utilizzate per fini del tutto diversi. La mafia, per dire, sa
collaborare benissimo. Come dare un contenuto e un significato etici
alla collaborazione? Ecco una delle grandi sfide del nostro tempo. A mio
avviso, si tratta di tentare di “viverla” in piccole comunità locali e
in seconda istanza trasferirle nelle grandi società».
Infatti la collaborazione ha anche una valenza politica...
«È mia convinzione che esista una contrapposizione fra la sinistra
sociale – orientata all’associazionismo, alla realtà sociale – e la
sinistra politica – che si limita a puntare sulla solidarietà. È tempo
di dare più valore alla sinistra sociale e meno a quella politica. In
altre parole, è sulla collaborazione che dobbiamo scommettere, sulla
capacità degli individui e della società civile di creare forme proficue
e vantaggiose per tutti di cooperazione. Il concetto di solidarietà
generica, di cui si riempie la bocca la politica, passa in secondo
piano. Il punto di partenza devono essere le esperienze concrete,
locali, di collaborazione: si deve partire dal basso, non da vuote
politiche nazionali».
Paolo Perazzolo