Samburu, un popolo da salvare

L'etnia che vive nel Nord del Kenya, minacciata dal progresso, è al centro di una serie di iniziative alla Cattolica, dove verrà presentato un progetto a difesa della biodiversità.

Il pastore diventato missionario

20/03/2012
Una donna samburu con il figlioletto.
Una donna samburu con il figlioletto.

Al convegno che si terrà alla Cattolica sul popolo Samburu sarà presenta James Lengarin,  missionario della Consolata e antropologo proveniente proprio da questa etnia, autore della tesi The Samburu Cultural Context and the Means to Evangelization. Padre James Bhola Lengarin è nato a Maralal il 15 aprile 1971 e attualmente è parroco presso il santuario-parrocchia della Consolata a Nairobi. Ecco la sua testimonianza.

Come è nata la sua vocazione?
«Io sono figlio di pastori nomadi dei Samburu. Nella mia vita c’è sempre stata la domanda: cosa devo fare della mia vita? Mi piaceva molto aiutare le persone che venivano da noi, che non avevano tante mucche come noi; andare ad assistere gli altri che erano meno fortunati di me. Mio padre è stato ucciso da un elefante tre-quattro mesi prima della mia nascita, e quindi quando sono nato c’era soltanto la mamma. Eravamo otto e lei doveva occuparsi di tutti noi. Anche alla mamma piaceva questo mio modo di fare… Un giorno ho detto: “Mamma, senti, io devo andare in seminario dove si insegna alla gente ad andare ad aiutare gli altri, anche fuori dalla nostra famiglia, fuori dalla nostra nazione”. E lei disse: “Va bene …”. Mia madre, la sera, pregava; al mattino, pregava, ringraziando il Signore per tutto quello che aveva avuto, e io la sentivo, perché dormivamo tutti insieme. E questo mi ha sostenuto in tutta la mia vita, fino ad adesso».

Perché la scelta di farsi missionario?
«È stata la sfida di andare oltre la mia vita di casa, perché queste persone che sono venute da lontano hanno cercato di aiutare soprattutto chi non aveva neanche il denaro per mandare i bambini a scuola. Mi ricordo che mia madre, quando le ho parlato dei Missionari della Consolata, che erano soltanto bianchi, mi ha detto: “Ma non vedi che sei nero?”. Io le ho risposto: “Senti, mamma, io andrò a lavorare con loro e io sarò anche una sfida per loro!».

Quali gioie ripagano la difficoltà di lasciare tutto?
«La cosa più bella è stare insieme: l’altro apre il mio cuore, la mia mente e aprendomi, i pregiudizi che avevo verso gli altri, diminuiscono e nascono i valori del rispetto, della solidarietà, della condivisione, della giustizia, della pace. Vivo con confratelli di diversi continenti, eppure mi sento a casa mia. Queste sono le cose belle che si possono fare sempre, però bisogna lasciare qualcosa. Se non lasci trasformare la tua vita, questo non sarà possibile. Ci vuole apertura di mente, un cuore grande… Solo Gesù Cristo ci fa vivere tutto questo. Una delle sfide è anche quella di lasciare la casa per tanti anni: nei primi anni, i contatti non sono stati facili! Nel ’90 non c’erano ancora i telefonini, come adesso: potevi mandare una lettera, che sarebbe arrivata dopo due mesi. Però, se ami tanto quello che ti ha portato lì, anche queste piccole cose che fanno parte della vita, si superano! Sono partito per fede, e questa fede mi porta tante cose che altrimenti non potrei nemmeno immaginare di potere avere».

Un bambino dell'etnia samburu.
Un bambino dell'etnia samburu.

I missionari della Consolata sono impegnati in progetti di assistenza: di cosa si tratta?
«Cerchiamo di aiutare con quelle cose che portano speranza. Non soltanto il cibo, che finisce subito. Noi aiutiamo soprattutto i bambini affinché non diventino delinquenti: insegniamo loro come vivere insieme… In questo momento si parla di giustizia e di pace per l’Africa: parliamo di giustizia, di riconciliazione. Si inizia proprio da lì: attraverso i bambini, arriviamo anche alle famiglie».

Quale auspicio per il Sinodo dei vescovi sull’Africa in corso in questi giorni?
«Auguro che l’Africa sia veramente un continente che possa evangelizzare: siccome noi abbiamo ricevuto tanto, è venuto il momento in cui noi dobbiamo dare. E credo che questo Sinodo sia rivolto non soltanto ai nostri vescovi, sacerdoti e religiose ma anche ai nostri laici: per dare loro maggiore responsabilità. Per giungere alla riconciliazione, alla giustizia, alla pace ciascun singolo membro della Chiesa deve fare la propria parte».

Paolo Perazzolo
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