19/05/2010
Un produttore di prosciutto a San Daniele del Friuli, dove l'80 per cento della lavorazione avviene con riti antichi.
«Ma che vuole che si faccia in
Friuli. Si beve, no?». Spalanca
gli occhi azzurri Elisabetta
Scala, colta e raffinata signora
udinese di buone tradizioni, un po’
friulane e un po’ mitteleuropee, come se la risposta
fosse la più normale del mondo.
Ma il vino dà... «Il vino dà alla testa», interrompe
lei, «e, infatti, il Friuli è la regione italiana
dove si leggono più libri in assoluto, dove
i festival letterari e gli eventi culturali si inseguono
in tutte le stagioni dell’anno».
Narra Bruno Pizzul, mitico telecronista sportivo, che suo nonno Daniele non chiese fiori sulla sua tomba, ma solo un tajut di Tocai,
il vecchio vino defunto per la causa intentata
dai viticoltori ungheresi, accompagnato
nell’ultimo viaggio da 20 appetitose ricette
perché facessero parte del suo addio al mondo,
ma il giorno dopo prontamente risorto
con l’appellativo Friulano: «E se il tocai è buono
come vino, sarà buono come Friulano».
«Noi siamo così», racconta Flavio Barbina,
presidente delle Pro loco friulane, «concreti
sia nel fare sia nel pensare».
E anche nel mangiare, a onta di una vecchia
immagine arcigna, chiusa e testona
che incombe su quella che venne definita
“Piccola Patria”, terra di culture slave e germaniche,
con una propria lingua (guai a chiamarla
dialetto) così diversa dall’Est della
sfuggente Trieste all’Ovest del confine con le
valli di Conegliano. Una regione che Claudio
Magris, nel suo bellissimo romanzo Microcosmi,
ha sottratto alla furia della globalizzazione
restituendoci tanti luoghi, volti, atmosfere:
il caffè San Marco di Trieste, «Un’arca di
Noè dove c’è posto, senza precedenze né
esclusioni, per tutti», la valle del Friuli, la laguna
di Grado, la volta di una chiesa. Un’antologia
di fatti minimi così poco assimilabili
con altri nel mondo.
Come quella Villa Manin di Passariano,
nei pressi di Codroipo, così sontuosa e sola
nella piana della Bassa Friulana, dove Napoleone
e Giuseppina Beauharnais sostarono
una notte prima di firmare il trattato di Campoformio,
sede di delizie e divertimenti. Ed è proprio qui che, da sabato
15 maggio a domenica 23, il
Friuli del vino, del mangiare e
dei saperi celebrerà i suoi fasti,
seguendo l’itinerario di 150
piatti che racconteranno i sapori
più genuini di questa terra
stupenda.
«Ancora una volta, per la nona
consecutiva, i 50 tendoni delle
Pro loco friulane saranno assiepati
lungo le ali dell’esedra»,
racconta Flavio Barbina, «per
pochissimi euro verranno serviti i piatti di
cinghiale, la lepre, il toro, il bufalo, il branzino
di Grado, l’oca; e ancora alici, asino, sarde
ai gamberi, i prosciutti affumicati del Sauris
e quelli delicati di San Daniele, i formaggi di
montagna, il celebre Montasio».
Pro loco di territori famosi come San Daniele
del Friuli, dove da generazioni le famiglie,
poi diventate imprese, stagionano i famosi
prosciutti secondo un rito antico, naturale
e mai tradito: «L’80 per cento della lavorazione
», spiegano padre e figlio di una delle
aziende più artigianali di San Daniele, «viene
eseguita con la stagionatura sotto tetto, esposta
ai venti virtuosi che scendono dai monti
o salgono dal mare, poi in cantina a ridare
corpo e dolcezza alla carne del prosciutto».
Gente semplice. Bruno, il vecio, di brutti
momenti ne ha passati tanti, eventi luttuosi
che hanno lasciato il segno e tanta malinconia
sotto il sorriso dolce e il naso bello rosso:
«La malinconia? Quando viene»,
sorride, «me la carico sulle spalle
eme la porto nella casetta lassù
in montagna, la scarico fra il
fieno e i prati. Un po’ passa».
Ancora qualche battuta fra vino,
prosciutto e pallidi ricordi
di gioventù: «Sa com’è, quando
l’età avanza si passa alla meditazione.
E a un po’ di vino».
San Daniele, ma anche piccoli
gioielli come Mezzomonte, un pugno di case
sui monti sopra Aviano, famoso per le
sue castagne dolci e i tanti ciliegi in fiore
che ingentiliscono la montagna, ora che è finalmente
primavera: «Le preparavamo cuocendole
nel latte», racconta Anna Mezzaroba,
87 anni, accanto a suo marito Giò Maria
di 93, «perché poi non avevamo granché».
«Questo paesino veniva chiamato il villaggio
delle balie», racconta Marco Verdelli, nipote
di Anna e Giò Maria, «partirono tutte
per allattare i figli dei milanesi e della gente
di altre città del Nord».
Da Mezzomonte arriveranno a Villa Manin
le castagne cucinate nei tanti modi della
povertà che fu, mentre la Pro Loco di Manzano,
zona meno conosciuta, ma assai pregiata
del Collio, raccolta intorno all’antica abbazia
di Rosazzo, arriveranno i tanti vini che “danno
alla testa”, insaporiscono il cervello, svegliano
membra anchilosate.
Spiega la signora Ivana Adami di Ronco
delle Betulle con il suo stupendo Cabernet
Franc, trovatasi per caso alla guida dell’azienda
lasciatale dal padre: «Di necessità si fa virtù,
mi sono trovata a fare l’imprenditore e ci
ho preso gusto». Nel suo giardino, tra i filari
di viti, nelle sere d’autunno prima che faccia
freddo, si suona dal vivo: jazz, classica e vino
buono. «Ci crederanno, gli italiani, che noi
friulani», sorride, «non siamo musoni?».
Guglielmo Nardocci