20/12/2012
Dal Kirghizistan all’Italia è un vero terremoto quello che sta scuotendo il mondo delle adozioni internazionali, dopo la notizia riportata dal quotidiano La Stampa che almeno 30 coppie sono state truffate, illuse, traumatizzate e almeno altrettanti bambini, in condizioni di particolare fragilità, usati e delusi.
La storia: dopo il viaggio nel paese eurasiatico per conoscere i minori a cui erano stati abbinati, i genitori sono rientrati convinti di aver concluso la procedura, invece i bambini che avevano conosciuto non erano adottabili e il mediatore estero che li aveva accompagnati, per conto di un ente italiano accreditato, è attualmente irreperibile con il denaro consegnato dalle coppie (10mila euro per le procedure d’adozione di ciascun bambino).
E mentre la vicenda segue la via giudiziaria e diplomatica, con la Commissione Adozioni impegnata a chiarire i fatti e le responsabilità, molte famiglie si domandano come sia potuto accadere e come viene gestito il percorso nel Paese straniero delle coppie pronte ad adottare.
“Questa storia pone l'attenzione sull'importanza della scelta dell'ente da parte delle aspiranti famiglie adottive”, scrive il Ciai (www.ciai.it) in un comunicato stampa. “Gli enti devono dimostrare alle coppie esperienza, conoscenza del Paese nonché dotarsi di strumenti e parametri etici per controllare ed evitare queste situazioni: inoltre gli enti devono fare attenzione a scegliere i propri referenti locali, che magari promettono di realizzare alti numeri di adozioni. Imporre scelte etiche significa anche sapersi fermare, a volte, di fronte a proposte troppo facili”.
Ed è proprio il ruolo dei “referenti locali” ad alimentare il dibattito tra gli enti autorizzati: “La fase all’estero nella procedura di adozione è sempre la più problematica, quella che rischia di uscire dal controllo, quella che fa lievitare i costi dell’adozione”, riflette Irene Bertuzzi, fondatrice e responsabile delle adozioni internazionali di AiBi (www.aibi.it). “Per noi è fondamentale che l’ente abbia all’estero personale proprio: volontari espatriati che si occupano di seguire ogni singola procedura, accompagnando le coppie, mantenendo le relazioni con le istituzioni locali e vigilando sulla correttezza professionale e sui contributi degli avvocati, degli assistenti sociali, degli psicologi e di tutti i soggetti coinvolti”.
Meno sicura è invece la prassi (diffusa) di mettere tutta la pratica nelle mani di rappresentante locale, avvocato o libero professionista, che rischia di fare il bello e il cattivo tempo con l’associazione. “Sarebbe davvero importante che la Cai imponesse, per lo meno nei paesi in cui vengono fatte molte adozioni, che gli enti autorizzati aprano un ufficio con personale proprio espatriato”, sottolinea la Bertuzzi. “Non mi sembra condivisibile la modalità di consegna a un rappresentante all’estero dell’intera -e consistente- somma delle spese adottive, senza nemmeno sapere in che modo queste saranno suddivise. Questo passaggio di denaro apre una zona d’ombra sulla procedura. Le nostre coppie, ad esempio, partono per i Paesi esteri senza alcun incarico di consegna di denari, viene tutto regolato in Italia”.
E come comportarsi di fronte alla richiesta di extra e donazioni? “In quel particolare momento della procedura adottiva, le coppie hanno una notevole fragilità psicologica”, prosegue la fondatrice AiBi. “Però la Cai ha stabilito nero su bianco, nelle tabelle costi, quale deve essere il massimo della donazione libera stabilita a favore dell’orfanotrofio: non più di 500 euro, sui quali viene quasi sempre rilasciata una ricevuta oppure viene richiesto un equivalente in materie di prima necessità, dalle coperte alle esigenze d’ufficio. Tutto deve fermarsi a questo. Questa vicenda ci richiama, come enti, alla responsabilità delle nostre azioni, a rinnovare l’impegno di lavorare in modo limpido, trasparente, etico. Dobbiamo farlo ancora di più, pensando che la perdita del denaro, la truffa, per quelle famiglie oggi è forse l’aspetto più trascurabile rispetto al dolore di aver finalmente abbracciato i loro figli per poi vederseli negare. Ed è trascurabile anche per quei bambini usati ignobilmente come pedine”.
Benedetta Verrini