I compiti: solo una tortura?

Come si fanno i compiti a casa è un dato rivelatore delle dinamiche di una famiglia. Spesso mandano in tilt i rapporti tra genitori e bambini. A ognuno il suo ruolo dicono le esperte

04/03/2013

Che i compiti a casa siano un fattore di sempre maggiore preoccupazione e disorientamento per i genitori italiani, gli esperti dello Spaee (il Servizio di Psicologia dell’apprendimento e dell’educazione dell’Università Cattolica di Milano) lo hanno capito da tempo.

«Abbiamo sempre più richieste d’intervento all’interno dei singoli istituti», sottolinea Manuela Cantoia, docente di Psicologia generale che ha animato, insieme agli altri colleghi membri del Servizio, una giornata di studi intitolata «Fai i compiti o…facciamo i compiti? Il compito d’apprendimento tra figli e genitori».

 I compiti rappresentano una sorta di rivelatore delle dinamiche familiari e dei rapporti scuola-famiglia. Il dibattito sulla loro utilità è sempre vivo e non solo in Italia: sono veramente necessari? E sono utili? Sono un impegno, una responsabilità, un’opportunità, una “tortura”? «La questione è molto più profonda di quello che appare», prosegue Cantoia. «La gestione domestica dei doveri scolastici rivela sempre il modo in cui ci poniamo con i nostri figli, le aspettative -a volte molto ambiziose- che abbiamo nei loro confronti, il modo in cui viviamo i loro fallimenti, che spesso identifichiamo come fallimenti personali».

L’invito degli esperti è, dunque, in primo luogo di evitare questa sovrapposizione e di recuperare un ruolo genitoriale di incoraggiamento verso un percorso in cui i bambini e i ragazzi devono essere davvero protagonisti.

Cosa fare, dunque? «Far sì che il compito sia sempre un’esperienza di senso, inserita nella più ampia esperienza di apprendimento della vita», sottolinea Emanuela Confalonieri, docente di Psicologia dell’adolescenza e autrice del libro La scuola: che bella fatica! (ed. San Paolo). C’è un traguardo da raggiungere, spiegano le esperte, ed è quello di avviare i figli all’autonomia, obiettivo che si costruisce per gradi attraverso piccole regole di disciplina (ad esempio stabilire un orario fisso per fare i compiti) e aiutandoli a organizzarsi distribuendo i carichi di studio nella settimana.

Bisogna essere esigenti con i voti? «Non sempre il voto, anche alto, è la cartina di tornasole dell’avvenuto apprendimento: ci sono ragazzi molto bravi a dire la cosa giusta al momento giusto, senza che dietro ci sia stata una vera preparazione», avverte Cantoia. «E’ meglio piuttosto aiutare i figli a cogliere i motivi dei successi o degli insuccessi». Perché la scuola è davvero una palestra di vita: in essa si sperimenta il senso del dovere, la conoscenza di sé e dei propri limiti, la capacità di reagire ai fallimenti.


«E’ sempre difficile per il genitore prendere le distanze e lasciare che i ragazzi, nel bene e anche nel male, si sentano davvero protagonisti di questa esperienza», spiega Confalonieri. Qualche pillola di saggezza per farli partire con il piede giusto? «Non nascono sapendosi organizzare: bisogna insegnarglielo, ad esempio nelle prime classi è utile aiutare a preparare la cartella, leggere insieme il diario e le comunicazioni degli insegnanti», conclude. «Oltre al momento stabilito dei compiti nella giornata, dovrebbe esserci sempre un genitore “stabilito” addetto al supporto, possibilmente quello più paziente. E’ importante infine l’atteggiamento, ad esempio sottolineare che state valutando il loro prodotto, cioè un buon compito o un pessimo compito, non la loro persona. Infine, accettare che nell’arco dell’anno ci saranno momenti di stanchezza, ma se si è lavorato con continuità, le “volate” di fine quadrimestre non saranno mai troppo stressanti»

Benedetta Verrini
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