15/04/2010
Un figlio costa 643 euro in più al mese, una cifra che per la gran parte delle famiglie non è sostenibile.
Un passo avanti in 40 anni è stato
fatto: i tempi – gli anni ’70 –
in cui si aggiravano i mentori
dell’eccesso di popolazione e della progressiva
riduzione delle risorse a causa
della nascita di troppi bambini sembrano
ancora più lontani. E con essi anche
i pulpiti citati con grande riverenza, come
il Rapporto del Club di Roma o il
più internazionale Rapporto Meadows,
che in modo diverso mettevano in guardia
dal pericolo-figli, colpevoli di spingere
sul baratro nientemeno che la sopravvivenza
del pianeta. Un passo avanti, bisognerà ammetterlo,
è stato fatto: i figli, pare, “siano utili”.
A tutti, anche alle famiglie che non ne
hanno, persino all’intera società. Un
passo avanti, è innegabile, a parole
(nei convegni, ricerche, studi,
discorsi politici), c’è stato. Nei
fatti, almeno nel nostro Paese,
no. Perché a far vivere
quei figli non ci pensa la
società, ma ancora, come
sempre, le famiglie
da sole.
Ce lo ripete,
senza mezzi termini,
il Rapporto Cisf
2009 sulla famiglia,
che presenta i risultati di un’indagine
effettuata con 4 mila interviste su
un campione statisticamente rappresentativo.
Si intitola Il costo dei figli, mettendo
in chiaro un’affermazione non di poco
conto: si sta parlando di bambini, ragazzi,
giovani figli di qualcuno e non di
una sorta di categoria dai tratti indefiniti
e generici, qualcosa di simile a una
razza animale da proteggere.
Pierpaolo Donati, da vent’anni curatore
del Rapporto per il Cisf (Centro
internazionale studi famiglia),
è netto come al solito: «Le
politiche pubbliche degli ultimi
decenni hanno trattato sempre
più i figli come una categoria
astratta e generica, come “minori”,
“bambini”, “adolescenti”, “giovani”
e sempre meno come figli,
cioè come persone che hanno delle
precise relazioni di filiazione con genitori
concreti. È vero che le preoccupazioni
per i figli di famiglie povere, in crisi,
separate, a disagio, sono cresciute,
ma gli interventi di welfare vengono ancor
oggi disegnati più sulle situazioni
critiche che sulle condizioni normali».
Se non si rischiasse di semplificare
troppo, bisognerebbe dire che i figli
“normali” non interessano a nessuno,
tantomeno allo Stato, un costo lasciato
ai pochi interessati, un fatto esclusivamente
privato, frutto di una libera scelta,
come quella di allevare un vitello o
cambiare il frigorifero (che – per precisione
– sono almeno detassati).
Farli nascere, e poi crescerli
Una scelta che – ricorda il Rapporto,
da decenni strumento di discussione e
lavoro apprezzato negli ambienti accademici,
politici e culturali – si trasforma
sempre più in una rinuncia, tanto che
le famiglie con figli in Italia sono diventate
meno del 50 per cento del totale.
Da oltre trent’anni, infatti, il comportamento
riproduttivo della popolazione
non arriva ad assicurare il ricambio tra
genitori e figli e il tasso di fecondità totale
è attualmente pari a 1,41 (una media
tra l’1,33 delle donne italiane e il 2,12
delle “straniere”).
Eppure, il Rapporto continua a mettere
in luce una costante della società italiana,
la grande distanza fra il numero
di figli desiderati (nel caso degli intervistati
pari a 2,13) e quelli effettivamente
avuti (1,71). Con buona pace di chi irride
quella che si vorrebbe una tendenza
a spingere le coppie ad avere figli,
mentre forse si potrebbe aiutare
chi li desidera a non rinunciare.
Avere un figlio, come ricorda bene
il Rapporto (costretto a ribadire
qualche ovvietà se non fosse
che nella realtà italiana ovvietà
non paiono per nulla), è
solo l’inizio, perché poi bisogna
mantenerlo e farlo crescere.
Il tema del costo dei figli, peraltro molto chiaro in termini economici, è stato affrontato in un quadro discelte culturali, sociali e politiche: «La sfida della cura dei figli si imbattenella difficoltà di metterein campo diverse risorse attorno a tre nodi fondamentali:una disponibilità economica sufficiente a garantire l’incrementodelle spese che una famigliadeve sostenere con l’arrivo dei bambini; il tempo su cui i genitoripossono contare per occuparsi direttamente della cura; lapresenza di una rete di servizi che possanoaffiancare la famiglia nel compito di cura».
Tutto questo in una «società incui l’economia ha mercificato il costodei figli, comparandolo con quello di altribeni di consumo, quali un’automobile,una seconda casa al mare, o un belviaggio in Paesi esotici». Bene fa il Rapporto Cisf a ricordare che nel costo dei figli va computatoben altro che il solo denaro. Insieme al costo “di mantenimento”(spesa per i soli beninecessari), si tiene in contoquello di accrescimento (chemisura l’esborso reale per i figli),e anche il costo totale di accrescimento,dato dal precedente sommatoal valore del tempo dedicato allacura dei figli, «che raramente i genitoriconteggiano esplicitamente, ma che sicuramenteviene “valutato” per deciderese fare un figlio o meno».
Ma se anche ci si volesse fermare allamera spesa economica, non ci si stancheràmai di ricordare che dai dati Istatemerge come non tutte le famiglie configli siano in grado di garantire il mantenimentodi uno standard di vitaritenuto “accettabile”. Ilrischio di collocarsi sottoquesto standard, e quindidi vivere in condizioni di“povertà assoluta”, aumentaal crescere del numero di figli.In particolare si osserva unevidente aumento del rischioper le famiglie numerose: quandonella famiglia sono presentialmeno tre figli, l’incidenza di povertàassoluta è doppia (8 per cento)rispetto a quella calcolata per ilcomplesso delle famiglie italiane(4,1 per cento) e tripla rispetto aquella stimata per le coppie con unsolo figlio (2,6 per cento).Limitarsi a dire che i figli sono unbene comune, dunque, non bastapiù. Urge, invece, una politica non solodelle istituzioni pubbliche, ma anchedi quelle private per aiutarli a vivere.
Renata Maderna