15/04/2010
Alle nove di sera nel grande atrio
dell’edificio giallo di via Saponaro
40, periferia sud di Milano, ci
sono molte persone di vario colore, accenti
diversi. Tanti nel cortile, di più nei
due piani superiori, in tutto oltre 400.
C’è chi è appena arrivato e ha ancora il
cappotto, altri sono già in pigiama nelle
loro camere multiple. La mensa del
pianterreno è deserta e pulita, i pasti caldi
serali sono stati serviti un’ora fa.
Siamo in un centro di prima accoglienza
per senza fissa dimora in zona
Gratosoglio, un’ex scuola che nel 2006
il Comune ha destinato alla Fondazione
Fratelli di San Francesco d’Assisi in
comodato d’uso gratuito. Poco lontano
tanti palazzi alti, tutti uguali.
«Prendiamo in carico le persone, le accogliamo
come sono, fino all’integrazione
umana, all’autonomia professionale
e abitativa. Raggiungiamo l’obiettivo
nel 33 per cento dei casi», spiega padre
Clemente Moriggi, saio e occhi sorridenti,
mentre in guardiola controlla il
nome di chi arriva. Qui si mangia, si dorme,
si fa la doccia. Ci sono infermeria,
assistenza sociale, consulenza psicologica,
orientamento al lavoro, scuola di italiano.
«Ospitiamo chi ha problemi mentali,
ex tossici, ammalati di Aids, richiedenti
asilo, persone in via di regolarizzazione.
E anche padri separati: a oggi sono
un’ottantina».
Sono i nuovi poveri, gli ex mariti italiani
in difficoltà economiche: i dati dell’associazione
matrimonialisti italiani
parlano di 50 mila tra Milano e provincia:
«Il divorzio è un privilegio per ricchi,
non per i separati a bassa soglia.
Chi guadagna anche 1.300 euro al mese
ma deve versarne 800 per il mantenimento
di moglie e figli, e deve pagare
un affitto per sé perché la casa resta alla
famiglia, rimane solo con gli occhi per
piangere. Figurarsi se perde il lavoro».
Come è successo a Marco, ex poliziotto,
jeans e giubbotto di pelle: «Il matrimonio
è finito, il lavoro pure. Ho cercato
e trovato altre occupazioni temporanee:
lo smistamento della posta prioritaria,
la guardia del corpo in Africa sulle
piattaforme petrolifere. Oggi lavoro
con padre Clemente come autista dell’Unità
mobile che al mattino va a svegliare
i clochard che dormono per le vie
di Milano. Non vedo mia figlia di 12 anni
dal 2007: potrei incontrarla, ma non
ho una casa dove andare. Dormo in via
Saponaro: non è posto per bambini».
È invece l’unico che Milano offre ai
padri poveri. «La stampa», precisa con
forza il frate francescano, «ha recentemente
parlato della destinazione esclusiva
ai papà della casa di seconda accoglienza
di via Calvino gestita dalla Fondazione,
160 posti letto». Giochi da elezioni
in corso: accoglienza leghista per
padri che sono italiani. «Quello non è
un posto adatto. Serve la privacy, non
un collegio. I figli devono avere la possibilità
di essere accolti senza vergogna,
in ambienti che ricordino il più possibile
una casa vera».
Qualcuno prova a creare alternative
milanesi a misura di bambino: l’associazione
lombarda dei Padri separati, che
ospita gli exmariti in due monolocali requisiti
in città alla mafia; la Provincia
con il progetto Giopà (attivo ancora per
poco perché non rifinanziato), che in
un appartamento colorato di via Procaccini
dà ai bambini la possibilità di trascorrere
ore di gioco con i padri.
Niente altro. Soltanto il dormitorio.
Ci vive Ivano, 51 anni, milanese. Era autista,
ha perso il lavoro: «La mia ex moglie
sa dove abito e non mi chiede continuamente
soldi, io do qualcosa quando
posso. Si è risposata con un uomo che
ho conosciuto anch’io, sono contento
perché è una brava persona e mio figlio
con lui sta bene».
Ci vive anche Marco, da qualche tempo.
Ha 54 anni, parla con un linguaggio
forbito e la vergogna negli occhi. È nato
a Catanzaro, lavorava in una banca milanese.
Ha perso lavoro, moglie siciliana
e figlia, riportata dalla madre a Trapani.
La bambina aveva sette anni quando
l’ha vista per l’ultima volta, ora ne ha
17: «Ho dei problemi, lo psichiatra è diventatomio
amico. Mi hanno diagnosticato
anche la sclerosi multipla. Qui c’è
chi ci aiuta a superare le difficoltà».
Mentre parliamo nel corridoio si sentono
urla: «Si litiga, tante le etnie. Io dormo
in palestra», dice Marco, «ho legato
con qualcuno. Ma anche tra noi non
parliamo mai dei nostri problemi, ognuno
si tiene il proprio dolore». La mattina
esce alle sette: «Il momento più brutto?
Le domeniche, Natale, Pasqua. L’altro
giorno mi sono tolto uno sfizio: ho mangiato
carne di maiale. A mensa non c’è
quasi mai, tanti sono musulmani. Così
ho risentito il sapore della festa, del
Sud. Un po’ del sapore della mia casa».
Maria Gallelli