05/06/2013
Alberto Stasi davanti alla Cassazione, processo da rifare (Ansa).
Abbiamo visto le tragedie umane di Yara, di Meredith, di
Sarah, di Chiara replicarsi all’infinito, fin nei particolari più
truculenti, in un gioco di specchi e di schermi in cui i più
disparati hanno detto la loro, con maggiore o minore cognizione di
causa, contribuendo alla creazione di una pseudoverità sempre più
distante dal processo e dalle sue regole.
Abbiamo visto il tifo da stadio accalcarsi davanti ai tribunali. Vediamo continuamente processi “processati” in arene televisive, cariche d’opionisti pronti a disegnare dibattimenti come scontri personali tra singoli pubblici ministeri e imputati eccellenti, magari con la complicità degli avvocati, che hanno sulla vetrina mediatica mani più libere rispetto ai magistrati vincolati al riserbo.
Ma l’aula di un tribunale non è uno stadio e neppure un salotto Tv e la giustizia è una cosa troppo seria, ancorché criticabile e imperfetta, per essere celebrata nella piazza divisa tra innocentisti e colpevolisti, con poco o nullo riguardo per le vittime. Il processo non è neanche una fiction di cui si possa dire tutto e il suo contrario, semmai è una rapprentazione, con regole e riti in cui la forma è sostanza e che spesso sfuggono alla comprensione dell’uomo della strada, esposto al caleidoscopio dei racconti esterni e alternativi.
Se si aggiunge che accade - è accaduto di recente a Garlasco e a Perugia - che le sentenze di primo grado si ribaltino in appello e poi ancora in Cassazione, la confusione del pubblico – sempre meno spettatore del processo e sempre più assiduo fruitore del suo surrogato televisivo – diventa massima. Chi ha sbagliato? Chi è colpevole? Chi innocente? Dov’è la verità, ammesso che ne esista davvero una e che l’unica metafora possibile non sia il dramma pirandelliano? Domande legittime, meritevoli di risposte seriemente argomentate.
Ma sarebbe grave se - spinti dall’onda emotiva dell’ultimo massacro o dalla sfiducia in una giustizia lenta o ancora fuorviati dall’interesse personale di imputati telegenici in cerca di autolegittimazione – cadessimo nella tentazione di credere che tutto andrebbe meglio se spettasse al popolo l’ultima parola. Basterebbe la storia di un signore che si chiamava Barabba, accaduta circa 2.000 anni fa, a confermarci che non è una buona idea. L’emotività, in fatto di giustizia, è comoda e a buon mercato ma non dà buoni consigli, solo cattivo esempio. Le testimonianze che seguono ci spiegano il perché.
Elisa Chiari
a cura di Elisa Chiari e Paolo Perazzolo