05/03/2011
Muammar Gheddafi.
"Ormai non posso nemmeno scendere in strada. La gente mi riconosce e mi chiede: Torna, torna. Ieri mattina ero a Mantova e sono andato alla messa del mattino, per evitare di essere avvicinato. Ma in quel caso un gruppo di fedeli anziani mi ha circondato e mi ha chiesto di tornare a guidare questo Paese". Nel suo ufficio bolognese all’ombra delle due Torri Romano Prodi posa gli occhi su un documento che riguarda la Libia di Gheddafi. E’ in partenza per Shangai, dove ha una cattedra. Poi andrà un mese alla volta degli Stati Uniti. Ma mantiene un occhio di riguardo per le rivoluzioni in atto nel Nord Africa e non potrebbe essere diversamente visto il suo passato di presidente della Commissione Europea, presidente del Consiglio, ambasciatore dell’Onu per i problemi africani.
“Non mi aspettavo che scoppiasse in questo modo. La mia consolazione è che non se l’aspettava nessuno. L’unico Paese sotto la mia osservazione era l’Egitto, ma non era prevedibile un rivolgimento del genere. Si sapeva delle precarie condizioni di salute di Mubarak, ma i dubbi erano solo su chi sarebbe stato il suo successore. Era opinione comune delle cancellerie che ci sarebbe stato un cambiamento nella continuità e non un terremoto.
La crisi nel Maghreb
Non c’erano segnali di alcun genere?
"Qualcosa c’era, soprattutto tra i giovani. Ricordo di aver avuto dei colloqui con dei giovani giornalisti egiziani presso la Biblioteca di Alessandria. Ricordo la freschezza della loro intelligenza, l’acutezza dei loro discorsi e delle loro domande. Una ragazza alla fine di quell’incontro mi disse:è stato un bel colloquio presidente, peccato che non potremo scrivere niente: oggi è in programma una visita ufficiale alla biblioteca della signora Mubarak e noi potremo scrivere solo di questa visita. La spinta delle rivolte infatti è costituita da masse di giovani disoccupati, con un alto livello di istruzione. Conosco bene città come Tripoli, il Cairo, Algeri e Tunisi. La loro caratteristica è di essere, come io dicevo già 10 anni fa, città di giovani diplomati e disoccupati. Il dramma vero è che la dotazione di ricchezza è aumentata , ma è andata soprattutto alla parte più elevata della popolazione".
E’ un problema anche europeo?
"E’ un problema globale. Nell’ultima generazione il reddito è stato distribuito in modo iniquo in tutto il mondo, se si escludono i Paesi Scandinavi e il Brasile”.
E la Cina? E’ una realtà che conosce bene, essendo titolare di una cattedra a Shangai.
“Anche la Cina è cosciente di questo grande problema di crescente iniquità. Negli ultimi anni è sempre più all’ordine del giorno l’obiettivo di spostare gli investimenti verso le zone più povere (soprattutto del Nord Ovest), di costruire un sistema pensionistico e sanitario (oggi in gran parte inesistenti) e di aiutare lo sviluppo delle campagne ancora in situazione di terribile arretratezza”.
Vede differenze tra i regimi del Maghreb e il regime cinese, che ha dato origine a uno strano miscuglio di comunismo capitalista?
“In Nord Africa la classe dirigente si è cristallizzata ed è durata immutata per decenni. In Cina si sa già che l’attuale ceto al potere è destinato alla pensione fra poco più di un anno, nonostante i grandi risultati ottenuti. Questo avviene già da parecchio tempo. E le posso assicurare che in Cina chi perde il potere lo perde davvero”.
In Medio Oriente stanno giocando un ruolo importante anche la Rete e i social network.
“Le nuove tecnologie sono state fondamentali. Quando lei ha una struttura pervasiva come la televisione, che però ha un solo punto di irraggiamento, può controllare facilmente l’informazione. Ma la Rete non ha un punto di diffusione, ne ha infiniti”.
Però anche la Rete si può chiudere, come è stato tentato di fare in Libia.
“Certamente, ma chiudendo la Rete si chiude anche il sistema economico del Paese (pensiamo alle fatture, agli ordinativi, al traffico delle agenzie turistiche e via dicendo). La chiusura della Rete equivale a una sorta di suicidio economico e la si può fare solo per pochissimo tempo”.
Tornando alle rivolte di questi giorni, non vede il rischio di un esodo biblico sulla sponda meridionale dell’Europa e in particolare sulle coste italiane, a cominciare da Lampedusa?
“Il rischio c’è. Bisognerà vedere come si evolve la situazione. Una soluzione a livello politico sarebbe l’ipotesi migliore. E qui veniamo a un punto importante, che si è già dimenticato per l’incombere dei fatti libici. L’Egitto ha quasi 80 milioni di abitanti, la Tunisia 10 e la Libia ne ha sei e mezzo. E’ l’Egitto il problema principale. E lì cosa sta succedendo? La prima fase post rivoluzionaria sta andando meglio del previsto. L’esercito ha aperto ai Fratelli Musulmani, che sono andati anche in Tv, da dove erano sempre stati esclusi. Sia l’esercito che i Fratelli Musulmani hanno annunciato che parteciperanno alla vita politica ma non presenteranno candidati alle elezioni presidenziali. Inoltre i fratelli mussulmani hanno assicurato (forse con un po’ di ironia) che non intendono vincere le prossime elezioni politiche. Nel frattempo però la situazione sta ovviamente peggiorando perché il turismo è bloccato e le imprese e le banche faticano a ritornare alla normalità. Questo inizio di democrazia è quindi molto fragile: se non si aiuta la ripresa economica le tentazioni di ritorno a soluzioni autoritarie diventeranno sempre più forti. Bisogna aiutare la nascente democrazia e non limitarsi a nobili dichiarazioni”.
E questo non avviene?
“Solo gli Usa hanno approntato un piano di 180 milioni di dollari. Un modesto piano Marshall egiziano, meglio che niente. Ma noi in Europa non ci siamo ancora mossi”.
La paralisi dell'Unione europea
Da cosa dipende questo immobilismo europeo?
“Da due cose. Primo: la politica estera europea è del tutto inconsistente. Secondo: si è tanto parlato di Unione europea per il Mediterraneo, ma non si sono mai forniti i mezzi necessari”.
Eppure questa per l’Europa è una grande occasione: si ridefiniscono secolari confini, la sponda africana e quella europea tornano a unire quello che Braudel definiva “un grande lago” ricco di scambi, economici, commerciali, culturali, …
“Il problema è che ai Paesi nordici del grande lago non interessa un bel niente. Io stesso mi ero impegnato a questo ricongiungimento del Mediterraneo quando ero presidente della Commissione europea. Dicevo: la storia ci ha delegato ad aprire con urgenza l’Europa verso est. La più bella esportazione di democrazia mai avvenuta nella storia dell’umanità. Ma ora tocca alla sponda meridionale dell’Europa. E invece non se ne è mai fatto nulla. Ogni volta che vado in Medio Oriente mi chiedono tutti: dov’è l’Europa?”.
L'Italia e gli accordi con il Colonnello
E l’Italia? Storicamente ha sempre avuto un grande ruolo nella politica del Mare nostrum.
“L’ultimo grande atto in questo senso è stata la missione di pace in Libano. Poi si è andati verso il nulla. L’attenzione per il Mediterraneo si è affievolita fino ad arrivare addirittura a ritenere inutile la stessa missione in Libano”.
Ci sono gli accordi con la Libia.
“Lo dico con chiarezza: sono stato io a sdoganare Gheddafi, a iniziare l’attenuazione del suo isolamento internazionale. Lo feci quando mi fu chiaro (e le informazioni in mio possesso si rivelarono esatte) che il Colonnello stava mettendo da parte la politica di tensioni, guerre e inquietudini che fomentava nell’Africa subsahariana. Lo invitai a Bruxelles, contestato da americani e inglesi. Lo scopo di fargli smettere i panni di creatore di conflitti è stato raggiunto. Naturalmente sapevamo tutti che il suo regime non era per nulla democratico, ma l’obiettivo che ci eravamo proposti a Bruxelles era un grande obiettivo. Forse anche troppo perché subito cominciò la fila di coloro che si recavano verso la tenda del colonnello Gheddafi, compresi americani e inglesi, e non sempre avendo come obiettivo la pace”.
Da premier italiano continuò questa politica?
“Da presidente del Consiglio ho cominciato a lavorare per il Trattato di amicizia. Abbiamo discusso mesi, poi ci siamo fermati”.
E perché?
“Perché non ritenevo conveniente per il nostro Paese la bozza allora in discussione. Prevedeva impegni gravosi e anche umiliazioni, come poi si è visto”.
Allude alla sceneggiata romana del Colonnello con tende, cammelli, e il caravanserraglio di “gheddafine”?
“Sì ma anche alla foto dell’eroe-martire libico vittima dell’Italia coloniale che aveva sulla divisa e via dicendo. Intendiamoci, bisognava chiudere le vecchie pendenze. Una tensione continua con l’Italia non avrebbe giovato nemmeno ad un possibile processo di apertura e democratizzazione”.
Il Trattato, poi chiuso da Berlusconi, ha portato però cantieri e commesse per numerose imprese italiane.
"Intanto prima di guardare al futuro bisognava chiudere i numerosi contenziosi in corso. Il governo Berlusconi ha ritenuto invece di firmarlo e di solennizzarlo in modo plateale, togliendo delle frecce al nostro arco che potevamo ancora adoperare. Comunque anch’io ritenevo che fosse importante anche per l’evoluzione democratica della Libia costruire rapporti di amicizia: io ritenni di non firmarlo solo perché conteneva obblighi eccessivi”.
Ritratto di Gheddafi
Il ministro della Difesa La Russa rispondendo alle critiche sui rapporti tra Berlusconi e Gheddafi ha ironizzato che il colonnello lo ha visto più lei.
"Penso proprio di si. Sono stato presidente della Commissione europea per cinque anni e presidente del Consiglio per un periodo quasi altrettanto lungo. I rapporti internazionali li curavo personalmente e li ritenevo prioritari. Viaggiavo per tutto il mondo e non solo fra Arcore e Roma . E’ vero perciò Gheddafi l’ho visto parecchie volte e ho sempre parlato a lui con grande sincerità e a volte con durezza. Naturalmente ricambiato".
Che impressione ne ha avuta, lei che lo ha visto da vicino?
"Mi sono più volte chiesto se sapesse l’italiano. Sono propenso a credere che facesse finta di non saperlo. Una volta rise fragorosamente a una mia battuta in italiano. E io gli dissi: ma allora lei lo conosce l’italiano. Ma non ebbi risposta. L’ultima volta l’ho incontrato nel deserto che si affacciava sul Golfo della Sirte. Intorno alla sua tenda c’erano centinaia di piccoli cammelli appena nati. Comunque, nessun rapporto dei servizi, nessun osservatore, né in Italia né in Europa, aveva messo in dubbio la solidità del suo regime”.
Anche voi avevate pensato al pattugliamento delle coste libiche?
“Cercavo ogni strumento per essere assolutamente sicuro che dalla Libia non partisse un mercato di uomini”.
La tratta degli uomini potrebbe ripartire?
“Non sono in grado di prevederlo. Per questo prepariamoci! La storia insegna che ci possono essere esodi biblici, anche se attualmente non ne abbiamo avvisaglie o segnali concreti”.
Il ministro degli Interni Maroni ha più volte lamentato che l’Unione europea non collabora.
“L’ho detto io prima del ministro Maroni che l’Europa non sta facendo nulla in tema di accoglienza. Da moltissimi anni non faccio che insistere sull’inadeguatezza delle politiche europee per il Mediterraneo. Quando ero presidente a Bruxelles ho proposto una politica di vicinato con i Paesi del Maghreb, la Palestina, Israele (ma anche Ucraina e Bielorussia) e con tutti i Paesi con noi confinanti o vicini. Un anello di amici che avrebbe contribuito al progresso economico e alla distensione”.
Due terzi dell'Europa non vede il Mediterraneo
Ma perché l’Unione è così sorda all’esigenza di coordinare una politica di accoglienza?
“Perché ai due terzi dell’Europa questo problema sembra interessare poco. Da Berlino, Londra o Stoccolma le sponde del Mediterraneo non si vedono. Una miopia che l’Europa rischia di pagare molto cara. Siamo in una fase di politica europea nella quale l’ossessione di limitare le spese comunitarie è totale. A me bocciarono persino i fondi per rafforzare il programma Erasmus, il programma di integrazione giovanile per eccellenza”.
Non c’è anche il fatto che in Italia abbiamo seminato troppo antieruopeismo in passato e adesso gli europeisti fanno spallucce alle nostre richieste?
"Non c’è dubbio. Si fa finta di non capire che, nell’epoca della globalizzazione la divisione dell’Europa equivale a un suicidio collettivo”.
La politica italiana, l'affare Telekom e la moralità in politica
Secondo lei è venuto il momento per vedere una donna salire a Palazzo Chigi?
"Da tempo. Anzi direi che è proprio strano che questo momento non sia ancora venuto. Abbiamo una presidente di Confindustria donna, il segretario della Cgil donna, abbiamo avuto più di un presidente della Camera donna. Prima o poi arriverà. Pensi a quanto era lontana la Germania dall’avere un cancelliere donna!"
Una domanda di politica interna: hanno contribuito alla sua caduta più i suoi avversari politici o i suoi alleati di Governo?
"E’ una gara dura! I miei avversari comunque non mi hanno risparmiato nulla. Per anni sono stato accusato del caso Telekom Serbia, una storia di cui non conoscevo nemmeno l’esistenza. Vada a vedere come è finita: una colossale montatura. Con la condanna a lunghissimi anni di reclusione a chi aveva fatto quelle accuse. Fassino ed io ci siamo più volte chiesti chi ha fornito gli ingenti mezzi necessari per alimentare questa colossale macchina infamante e che cosa abbia spinto alcuni membri della Commissione parlamentare a volere ad ogni costo dare credito a persone chiaramente non attendibili!".
Secondo lei è importante o no che un uomo politico tenga una condotta morale dignitosa o è sufficiente che serva il bene comune?
"L’uomo politico deve essere giudicato dai fatti. Ma tra i fatti c’è prima di tutto l’esempio. L’esempio di un politico incide sui comportamenti quotidiani di tutti. Profondamente. Ancora più oggi, anche in virtù dei mezzi di comunicazione, il comportamento personale è sempre più un comportamento pubblico. Inoltre, fin da ragazzo, mi è stato insegnato da autorevoli uomini della Chiesa che non si può agire con la morale a seconda delle situazioni. Quando sento dire che certi atti dipendono dal contesto mi chiedo: cos’è cambiato dall’insegnamento che ho avuto a oggi? Conservo ancora gli appunti di quegli insegnamenti”.
Francesco Anfossi