10/06/2011
Riguarda la modalità di affidamento della gestione
dell’ acqua potabile che per legge deve avvenire
tramite una gara pubblica, cui possono aderire i privati.
Acqua pubblica o acqua privata? Posta in questi
termini, la questione si chiarisce da sola: un bene così
essenziale per la vita non può avere un proprietario.
E in effetti, nel nostro ordinamento ci sono almeno
due articoli di legge (art. 822 del Codice civile e art. 1
della Legge Galli) che fissano, in modo inequivocabile,
il principio che «le acque superficiali e sotterranee sono
pubbliche e costituiscono una risorsa che è salvaguardata
e utilizzata secondo criteri di solidarietà».
Ma
allora perché un vasto movimento composto da associazioni
laiche e cattoliche, per non parlare della Rete
interdiocesana nuovi stili di vita e dell’impegno diretto
delle parrocchie, ha sostenuto il referendum contro
la “privatizzazione dell’acqua”?
Perché il 31 dicembre scattano gli effetti del Decreto
Ronchi: le società per azioni pubbliche che gestiscono
i nostri acquedotti saranno privatizzate. Per i promotori
e i sostenitori del referendum il servizio idrico privato
equivale tout court alla privatizzazione dell’acqua.
Eppure, in questi ultimi anni, in Italia il servizio idrico
è stato aperto al mercato, ma era una facoltà non un
obbligo. Grandi gruppi stranieri, francesi soprattutto,
sono quindi già presenti nel nostro Paese e incassano
le nostre bollette e il 7% di remunerazione del
capitale.
La novità introdotta dal Decreto Ronchi si
chiama obbligo per i Comuni di cedere almeno una
quota del 40 per cento ai privati. In gioco ci sono grandi
interessi: 64 miliardi di euro da riversare sulle reti
idriche in 30 anni, dieci volte l’investimento richiesto
per costruire il ponte sullo Stretto. La vittoria del Sì
non risolve, però, i problemi di un Paese che fa acqua
da tutte le parti. Il Sì avrebbe l’effetto di rilanciare il dibattito
e il confronto politico. Spetterà poi al Parlamento
discutere una nuova legge per disciplinare la materia,
allontanando gli speculatori da un servizio pubblico
essenziale come l’acqua.
Perché SI
Per impedire che il servizio idrico sia
affidato al mercato ed evitare il rincaro
delle tariffe. «Una volta vinta la gara e
ottenuta la gestione del servizio per trent’anni,
i privati si rivolgeranno alle banche oppure
faranno ricorso ai mercati finanziari per poter
investire. Nel primo caso caricheranno sulla
tariffa il costo degli interessi bancari, nel
secondo la remunerazione degli investitori,
oltre il guadagno per il rischio imprenditoriale»,
spiega Rosario Lembo, presidente del
Comitato italiano per un contratto mondiale
sull’acqua. «Conti alla mano, le tariffe
aumenteranno almeno del 50%, con trend
crescenti negli anni, come è già avvenuto nelle
città italiane ed europee che hanno affidato ai
privati il servizio idrico».
Con la privatizzazione
verrà meno anche la politica di riduzione dei
consumi e degli sprechi: trattandosi di un bene
sempre più prezioso, l’acqua si trasformerà
in merce, soggetta come qualunque altra
alla logica del “più consumi, più guadagno”.
«Il gestore non avrà alcun interesse a
raccomandare l’uso razionale della risorsa,
ma al contrario adotterà politiche finalizzate
a garantire la redditività del capitale
investito per gli azionisti».
Almeno per i primi
anni, la corsa al fatturato farà riporre nel
cassetto gli investimenti per la manutenzione
degli impianti o per i controlli di qualità, con
il risultato che i servizi scadenti lo saranno
sempre di più. «Un gestore privato non avrà
mai la stessa accortezza di quello pubblico,
perché cercherà soprattutto di realizzare
profitti», sottolinea Lembo.
Perché NO
C’è un equivoco: il Decreto Ronchi non
prevede la privatizzazione dell’acqua
(perché la proprietà delle fonti e delle reti
è pubblica), ma una gestione del ciclo idrico
integrato (rubinetti, fognature e
depurazione) affidata, tramite gara, a
imprese disposte a operare con standard
qualitativi più alti e a prezzi inferiori.
L’acqua come tale, dunque, non
diventerebbe privata: la legge prevede
solo l’obbligo che la gestione del servizio
idrico sia affidata alla libera concorrenza,
in modo da realizzare gli obiettivi di
efficienza, economicità e qualità.
«Non
bisogna parlare di proprietà dell’acqua,
ma di idraulici», semplifica
Antonio Massarutto, docente di
Economia pubblica e Politica economica
all’Università di Udine. «Così come
ciascuno di noi può decidere se riparare da
solo un guasto o richiedere un intervento,
allo stesso modo i Comuni dovranno
scegliere se creare una struttura di
“idraulici” alle proprie dipendenze oppure
affidarsi a professionisti esterni.
Alle
amministrazioni, dunque, viene chiesto di
organizzare una gara d’appalto per affidare
la gestione dei servizi idrici, a cui
comunque può partecipare anche l’azienda
pubblica. «L’ingresso di un privato non
determinerebbe l’aumento automatico
in bolletta, perché il Piano di ambito
territoriale indica gli obblighi del gestore in
materia di investimenti, livelli di servizio
e tariffe. Al massimo, l’eventuale ritocco
sarebbe dovuto a una revisione del Piano
per favorire investimenti volti a migliorare
il servizio», rassicura Massarutto.
di Giuseppe Altamore e Paola Rinaldi