Alberto Cairo: notte fonda a Kabul

Il fisioterapista che vive e lavora in Afghanistan per la Croce rossa internazionale ci racconta le speranze deluse di un Paese che continua a esser preda della guerra.

14/01/2011
Un negozio di vestiti, a Kabul.
Un negozio di vestiti, a Kabul.

Dieci anni di occasioni perse. L’Afghanistan comincia il 2011 stremato da una guerra infinita, paralizzato da una corruzione diventata ormai metastasi sociale e con il morale a terra. «Dalla sera del 7 ottobre 2001, da quando cioè George W. Bush ordinò i primi bombardamenti aerei, gli afghani hanno visto scendere in campo Usa, Europa e Nato. Questa volta ce la facciamo, speravano. Dal 2004, però, il disincanto ha via via scalzato la fiducia. Fallito l’obiettivo di creare una coscienza collettiva nazionale, etnie e clan rialzano la testa; il mancato primato della legge lascia intatti arbitrio e tradizioni; l’economia non decolla; il narcotraffico imperversa; il perdurante sottosviluppo rende i poveri sempre più poveri. A Kabul e dintorni, insomma, è buio pesto anche quando il sole brilla alto nel cielo».

Alberto Cairo conosce bene l’Afghanistan che ha raccontato più volte, in ultimo nel libro Mosaico afghano, edito nel 2010 da Einaudi, e nelle cronache pubblicate lo scorso dicembre sul nostro sito. Nato a Ceva, in provincia di Cuneo, il 17 maggio 1952, dopo la laurea in Legge conseguita a Torino (per pagarsi gli studi ha lavorato di notte alla Sip, come telefonista) Alberto Cairo ha cambiato radicalmente strada: è diventato un apprezzato fisioterapista, ha iniziato l’attività professionale in un grande ospedale di Milano, s’è poi trasferito per tre anni in Sudan e da oltre venti è in Afghanistan, per il Comitato internazionale della Croce rossa: «Arrivai nel 1990, ad agosto».

I russi erano appena andati via...

«Avevano lasciato ufficialmente il Paese nel febbraio 1989. Quando giunsi a Kabul era ancora vivo il ricordo di un tentato golpe. I mujaheddin si avvicinavano sempre di più. Con loro arriverà anche la pace, si sperava».

Invece fu guerra civile...
«Agli alti e bassi gli afghani sono abituati. Niente dura qui, si consolano amari. Così da sempre. Ricordo gli ultimi giorni dei comunisti. “Hai visto? Lo sapevamo, se ne vanno”, dicevano sollevati. Poi, in piena guerra civile, con le bombe mujaheddin che cadevano ovunque, consolavano me, vedendomi smarrito: “Passerà anche questa”. E aspettavano pregando. Fu la volta del regime talebano con leggi assurde, niente scuola e lavoro per le donne, segregazione, musica e fotografie proibite, isolamento dal mondo. “Questione di tempo”, ripetevano sicuri. E continuano ad aspettare, che cosa non lo sanno bene neppure loro».

Com’è l’Afghanistan, oggi?
«È un Paese dove si fatica addirittura ad avere dati certi relativi alla popolazione. Secondo la Banca mondiale, gli abitanti sono 29.802.000, di cui più di un terzo, per la precisione il 36 per cento, vive sotto la soglia della povertà, cioè con meno di due dollari al giorno: parliamo di 10.728.000 persone. Sappiamo, poi, che muoiono di parto tante donne, anche 40 mila all’anno, e che il 20 per cento dei bambini non supera i cinque anni d’età».

Secondo lei, domina una diffusa sfiducia?
«Riporto quanto sento e vedo. L’Occidente non aiuta l’Afghanistan a diventare adulto. Arrivato in massa dieci anni fa non ha mantenuto le promesse: la guerra continua, anzi per alcuni profili peggiora; l’affrancamento dalla povertà è merce rara; la democrazia è un concetto disincarnato. Adesso l’Occidente sostiene di voler togliere il disturbo. Non credo che voglia, di sicuro non può: lo Stato afghano è ancora una creatura troppo fragile. E troppi sono gli interessi in gioco dal punto di vista politico, economico e strategico».

Lei sta al capezzale della società...
«Coordino i sette centri ortopedici che il Comitato internazionale della Croce rossa ha a Kabul, Mazar-i-Sharif, Herat, Jalalabad, Gulbahar, Faizabad, Lashkar Gah. Seguiamo 99.800 pazienti registrati; tempo qualche giorno e saranno 100 mila. Il numero complessivo aumenta di 6 mila unità all’anno».

Sono dimensioni da azienda...

«Soltanto nel nostro centro di Kabul lavorano 340 persone tutte disabili, ex assistiti. Chi meglio di un ex paziente può infondere coraggio a quanti varcano per la prima volta i nostri cancelli? In tutto l’Afghanistan, i dipendenti del “Progetto ortopedico” della Croce rossa internazionale sono 650: fisioterapisti, infermieri, cuochi, elettricisti, falegnami, giardinieri e altre figure professionali. Prendono stipendi più alti: anche 200-300 dollari al mese contro i 70-80 dollari di un impiegato statale, sia esso un professore o un infermiere. Complessivamente produciamo 15 mila protesi e 1.500 carrozzelle all’anno ed eroghiamo microcrediti da 600 dollari per avviare piccole attività artigianali».

Si occupa di coloro che sono saltati su una mina e dei feriti di guerra...
«Non solo. Su 99.800 pazienti, le vittime del conflitto sono 35 mila. Gli altri sono disabili a causa di malattie, incidenti o dalla nascita. Molti i midollolesi che seguiamo anche a domicilio. I più abitano sulle colline, spesso ben in alto, dove avere un tetto costa meno. Per contro, l’acqua arriva in taniche portate a spalle o sugli asini e l’elettricità, quando va bene, viene erogata a giorni alterni. “Abbiamo una bella vista”, scherzano per scordare di essere prigionieri lassù. Le strade per arrivarci, infatti, sono impossibili per chi si muove con stampelle e carrozzine. Con pioggia e neve diventano impraticabili anche per persone sane. Le stanze sono spoglie, alle finestre fogli di plastica al posto dei vetri, in pochi casi il crepitare di una stufa riscalda l’ambiente. È quasi una metafora dell’Afghanistan. Termino le visite vergognandomi di avere tutto, troppo».

Alberto Chiara
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