31/05/2012
Giampilieri, frazione di Messina devastata da un’alluvione nel 2009 (foto Ansa. In copertina il ministro Corrado Clini, Ansa).
Ha fatto i conti. Far sì che il bel Paese
s’affranchi dal destino e dalla colpa,
ovvero dai deleteri effetti dei cambiamenti
climatici e dalle nefaste
conseguenze di una pessima gestione del territorio,
costa 41 miliardi di euro e richiede
circa 15 anni di impegno condiviso. Faticoso,
difficile, ma possibile. Parola di ministro.
Corrado Clini ha 64 anni, una laurea in medicina
messa a frutto nel combattere le malattie
professionali e una lunghissima esperienza
nel campo ambientale, dal momento che
è stato ininterrottamente direttore generale
di quel dicastero dal 1990 al 2011. Parla con
Famiglia Cristiana reduce da Shanghai, in Cina
e in procinto di volare a San Paolo, in Brasile.
Per quanto riguarda l’Italia, quando dialoghiamo
il nostro Paese è soprattutto l’eco
del terremoto in Emilia Romagna oltre che
dell’ennesima polemica per la nuova discarica
di Roma che il commissario, il prefetto
Giuseppe Pecoraro, voleva a Corcolle, a ridosso
del sito archeologico di Villa Adriana. Il
Governo s’è schierato con Clini e con gli altri
ministri contrari, quello dei Beni Culturali,
Lorenzo Ornaghi, in primo luogo, accogliendo
le dimissioni da commissario di Pecoraro.
uno dei sempre più frequenti nubifragi (foto Ansa).
– Superata la scelta di Corcolle che lei aveva
avversato, rimane il problema dei rifiuti...
«Ho proposto un piano finalizzato ad allineare la gestione dei rifiuti di Roma agli
obiettivi stabiliti dalle leggi nazionali e dalle
direttive europee per la raccolta differenziata,
il recupero di materiali ed energia, lasciando
le discariche in coda, come soluzione residuale
per la quota di rifiuti non recuperabili.
Dobbiamo uscire fuori dalla “schiavitù” delle
discariche. Per quel che riguarda Corcolle,
abbiamo valutato i rischi ambientali e confermato
le valutazioni negative dell’Autorità di
bacino del Tevere, perché la discarica potrebbe
compromettere uno dei siti più delicati
per l’approvvigionamento idrico di Roma».
– Più in generale, l’Italia non pare star bene.
«Neve, acqua, fuoco: gli eventi calamitosi
legati alle variazioni del clima sono più frequenti
di un tempo. Basti pensare che alcune
zone del nostro Paese, e cioè la Liguria, l’alta
Toscana, la Calabria e la Sicilia nordorientale,
quasi ogni anno lamentano sciagure per
via di precipitazioni dalle dimensioni inedite
che seminano devastazioni in tempi sempre
più ristretti. Non a caso si parla di bombe
d’acqua o di uragani mediterranei. Questi fenomeni
corrispondono agli scenari che da oltre
vent’anni i massimi esperti mondiali presentano
come manifestazione di eventi estremi,
connessi ai cambiamenti climatici».
Capo Falcone con una torre spagnola a Stintino, in Sardegna (foto Ansa).
– Ci si può difendere di più e meglio?
«Nel secolo scorso, durante il fascismo prima e nel secondo dopoguerra poi, l’Italia s’è
data infrastrutture tarate su un regime climatico
che non c’è più e che prevede piogge, sì,
ma non così abbondanti e intense, alternate
a periodi di vera e propria siccità per cui oggi,
per dirne una, risultano insufficienti il
diametro delle fognature piuttosto che la dimensione
delle pompe idrovore che devono
raccogliere l’acqua nelle zone esposte al rischio
di inondazioni perché sono sotto il livello
del mare, penso alla costa adriatica, da
Ravenna a Monfalcone, o all’Agro pontino».
– Anche l’uomo ha la sua parte e non è bella.
«I condoni edilizi susseguitisi per 40 anni
hanno legittimato insediamenti abitativi e
produttivi in zone che, giustamente, non erano
considerate adatte. C’è però anche altro».
– A che cosa fa riferimento?
«A partire dagli anni Ottanta, da un lato la
pianificazione urbanistica, i piani territoriali
e quelli paesaggistici hanno definito modalità
dell’uso del territorio via via sempre più sostenibili;
dall’altro, però, varianti “in deroga”
hanno fatto fiorire capannoni industriali, laboratori
artigianali, centri commerciali e condomini
dove buon senso e madre natura
avrebbero suggerito di lasciar perdere. Nessuna
sorpresa se l’acqua si riprende il suo spazio,
come è avvenuto con le alluvioni nel Veneto
e a Genova».
– Come si può reagire, adesso?
«Stiamo preparando un piano nazionale
basato sulla manutenzione degli assetti naturali
e sulla revisione degli usi. Gli alvei dei torrenti
e dei fiumi vanno puliti, gli argini aggiustati
o costruiti ex novo, i boschi devono essere
curati. La difesa del territorio è un’infrastruttura
necessaria allo sviluppo, come lo sono
le ferrovie veloci, i porti efficienti e gli scali
aerei all’avanguardia. Per farlo in Italia abbiamo
calcolato che occorrano 41 miliardi di
euro in 15 anni: il 40 per cento a carico del settore
pubblico e il resto sostenuto da investimenti
privati con meccanismi fiscali di supporto.
È cambiato il clima in senso proprio,
confidiamo che cambi il clima anche in senso
metaforico e che tutti si diano da fare».
– Per circa 21 anni è stato direttore generale
del ministero. Qualche autocritica?
«Direi tre cose, al riguardo. Primo: volendo
far presto si sono moltiplicati i commissari
straordinari per questa o per quella emergenza,
pensiamo alla spinosa questione dei rifiuti,
deresponsabilizzando Comuni, Province e
Regioni, senza risultati apprezzabili, anzi con
la cronicizzazione dei problemi. Un errore. Secondo:
dal 1996 il ministero è stato considerato
un posto dei Verdi, così molti hanno remato
contro temendo che i Verdi aumentassero
il proprio consenso. L’ambiente è un bene collettivo,
non di una parte. Terzo: puntando al
massimo si è ottenuto poco o nulla».
– Può spiegarsi meglio?
«Nel 1998 erano stati individuati per legge
57 siti di interesse nazionale da bonificare.
In buona sostanza si trattava di recuperare
ciò che rimaneva dei grandi insediamenti industriali
del nostro Paese. Ne è stato bonificato
solo uno: l’Acna di Cengio. Sono stati indicati
obiettivi di bonifica non realistici e a costi
impossibili. Il meglio è nemico del bene.
Non puoi pretendere di seminare il grano là
dove per 50 anni sono state impiegate sostanze chimiche altamente inquinanti. Abbiamo
modificato la norma individuando procedure
di messa in sicurezza e di reindustrializzazione
dei siti in modo da assicurare contestualmente
la protezione dell’ambiente e la gestione
“attiva” delle aree dismesse. Un sito industriale
abbandonato è molto più pericoloso e
inquinante di un sito gestito. Morale: la modifica
delle procedure ha avviato azioni positive
importanti. A Porto Marghera, secondo la Regione
Veneto, si sono già resi disponibili investimenti
per nuove attività industriali “sostenibili”
per almeno 6 miliardi di euro».
– Dal 20 al 22 giugno, a Rio de Janeiro si
svolgerà una Conferenza mondiale vent’anni
dopo quella, storica, del 1992. Fallirà?
«No. Non si scriverà nessun trattato, non
verranno date pagelle. Piuttosto si individueranno
obiettivi comuni nella direzione della
green economy, sostenuta dagli investimenti
nelle tecnologie pulite per l’energia e per le
fonti rinnovabili (260 miliardi di dollari nel
2011), con Cina e Usa che guidano il gruppo
di chi è più generoso nel finanziare progetti.
Senza dimenticare l’obiettivo dell’equa distribuzione
delle risorse e delle opportunità a livello
globale. Le emissioni pro capite di anidride
carbonica degli Usa hanno valori 3 volte
superiori di quelle cinesi e 15 volte maggiori
rispetto a quelle indiane».
– A proposito, in Italia come va?
«Da noi, la green economy conta 120 mila occupati.
Le opportunità e i settori d’intervento
aumentano. La crescita economica passa e passerà
sempre più attraverso l’uso sostenibile
delle risorse naturali ed energetiche. Si tratta
di una prospettiva di cui i giovani sono consapevoli.
Il 31 maggio abbiamo organizzato alla
Luiss di Roma il primo Greening Camp italiano.
Abbiamo interpellato quaranta Università
perché ci segnalassero gli studenti più promettenti.
Abbiamo selezionato 150 laureandi o
neolaureati e ben 60 progetti innovativi di
start up. Il futuro ecologico è sempre più un
business. Ad alto contenuto etico»
Alberto Chiara