01/10/2010
Il violoncellista mario Brunello
Sogna un coro in ogni scuola. Crede nella musica classica libera dai cliché e dai rituali del concerto che allontanano i giovani. Pensa a musicisti, “scesi dalle torri d’avorio, disponibili a raccontarsi in pubblico”. Esegue performance in cui la musica si incrocia con poesia e pittura. Si esibisce con Claudio Abbado e duetta con Marco Paolini. Inventa palcoscenici senza palco.
Straripante, visionario. Come una composizione mozartiana. Mario Brunello è così: morbidi vestiti casual addosso e, nei tasconi, un’idea dietro l’altra per trasformare quella “lingua straniera” che è la musica classica in un “esperanto” sonoro.
Tant’è multiforme la sua attività di musicista e sperimentatore culturale che si rischia perfino di dimenticarsi che stiamo parlando di uno dei maggiori violoncellisti viventi capace, nel 1986, a soli 26 anni, di andare a Mosca ad aggiudicarsi, primo e unico violoncellista italiano, un premio come l’ambitissimo “Tchaikovski”. Un artista che si esibisce da anni col suo inseparabile “Maggini” del ‘600 nei maggiori teatri del mondo, diretto da mostri sacri come Riccardo Muti o Zubin Mehta, o assieme a solisti del calibro di Gidon Kramer e Frank Peter Zimmermann. Le sue incisioni delle suites per violoncello di Bach sono ormai un “classico”.
Eppure, dopo il grande concerto, riposto archetto e strumento nella custodia rossa, questo quasi cinquantenne timido e gentile continua a “fare” e a sognare musica. E a portarla nei luoghi più impensati ed estremi: che sia su una vetta alpina o nell’arsura del deserto, tra le mura di un carcere o dentro il suo “capanon” industriale a Castelfranco, sua amata città d’origine. “Avessi potuto, quest’anno avrei suonato anche in aria, sul volo di linea Milano–Olbia”, sbotta. Solo il “no” dell’Enac, ovvero l’Ente Nazionale dell’Aviazione Civile, glielo ha impedito. Nessuno, invece, gli impedì una volta di eseguire la Holberg Suite di Grieg con la Società del Quartetto a Milano, in netto anticipo sull’orario d’inizio del concerto, con il pubblico ancora in corridoio. “Avevamo voglia di suonarla subito. E chi l’ha detto, poi, che si debba cominciare un concerto sempre alle nove?”, osserva candido.
Fu un mezzo scandalo?
“Ovviamente”.
Ma è vero che studiava lo strumento perché non amava la scuola?
“Sì, non amavo molto dover star seduto su un banco tutta una mattina”.
E il violoncello com’è entrato nella sua vita?
“Per caso. Da bambino suonavo la chitarra classica, ma il mio maestro mi ripeteva sempre: ‘Mario, dovresti studiare il violoncello’. A me, però, non interessava più di tanto”.
Finché…
“Finché a Castelfranco non aprirono una sede del conservatorio di Venezia e venne ad insegnare violoncello Adriano Vendramelli. E il suo carisma mi rapì. Lasciai per sempre le versioni di latino e lo seguii a Venezia e poi da lì proseguii…”.
Fino a diventare Mario Brunello. Ma da giovane si immaginava di realizzarsi con la musica?
“No di certo. Amavo la montagna, come adesso, e avrei desiderato fare la guardia forestale”.
Non a caso, ha inventato “I Suoni delle Dolomiti” e dal 1995 sale a rifugi alpini per suonare tra crode e forcelle. C’è chi la definisce “il musicista montanaro”. Le piace?
“Piuttosto che mi definiscano un musicista noioso…. Non lo faccio perché amo i bei panorami, ma perché ho capito che chi ci guadagna è anzitutto la musica. Il silenzio è diverso lassù e il suono arriva direttamente al cuore”.
Com’è nato questo appuntamento con le Dolomiti?
“Me lo propose l’amico clarinettista Mauro Pedron. E quando seppi che una signora non vedente era venuta da Bergamo salendo fino al rifugio Vajolet per sentire le suites di Bach, capii che questo appuntamento sarebbe diventato irrinunciabile e ancor oggi programmo la stagione concertistica a partire dai ‘Suoni delle Dolomiti’”.
Dai monti ai capannoni di cemento armato. Perché suonare in una ex-fabbrica trasformandola in una fucina culturale?
“Perché ho sempre sognato di portare la musica là dove si lavora. E poi è un modo per riscattare le persone e un territorio, come quello veneto, snaturato dalla cementificazione industriale”.
Così a Castelfranco ha affittato un ex fabbrica in cui si lavorava il ferro e l’ha ribattezzata “Antiruggine”. Un nome, una metafora?
“Cercavo un luogo dove scardinare l’ingessatura del concerto e l’ho trovato: quando vidi per la prima volta il locale era nero, caliginoso. Ho fatto due note col violoncello e ho scoperto che l’acustica era eccezionale. Il nome è venuto da solo: l’antiruggine toglie le incrostazioni dal ferro. La musica dovrebbe togliere quelle mentali”.
“Antiruggine” è anche un regalo alla propria città natale. E’ così?
“E’ un atto di riconoscenza. Voglio restituire alla mia città qualcosa della mia fortuna. Non so se è amore per Castelfranco. Amo il paesaggio che c’è qui attorno, questa campagna. i suoi orti. Ma non mi sento legato alla Marca, o al Veneto. Anzi, a volte mi torna difficile sentirmi veneto, oggi.
Si riferisce a una certa immagine di veneto, intollerante, e poco attenta alla cultura?
“I veneti sono persone meravigliose. Quando però emerge una voce collettiva veneta, anche in politica, spesso c’è un irrigidimento, una chiusura. Tira un’aria pesante. Che la cultura, poi, conti meno dei “schei”, (i soldi, ndr) è evidente. E spesso le iniziative culturali si confondono con le sagre paesane. Mi pare, insomma, che l’attenzione e lo studio per l’arte non vada di pari passo col tanto decantato genio industriale veneto”.
Dal Veneto all’Italia: in quale stato versa l’educazione musicale nel nostro Paese?
“Coi tagli alla cultura stiamo facendo terra bruciata. Il livello dell’educazione musicale nelle scuole è, a parte lodevoli eccezioni, bassissimo. La scuola sta creando generazioni di analfabeti musicali. Poi, c’è il lanciafiamme sulla musica”.
Il lanciafiamme?
“Sì, è il flauto dolce. Se vuoi far disamorare alla musica una classe, falle eseguire l’”Inno alla gioia” col flauto”.
E invece cos’è la ruggine nella musica?
“Qualcosa che si deposita e stratifica le abitudini. Un oggetto arrugginito non lo si guarda più, lo abbandoni alle intemperie. Nella musica è pensare di aver ormai capito tutto. Il ritenersi un intenditore. Ecco la parola diabolica. E questo è un rischio che corre anche un musicista”.
E lei ammette di non intendersi di…
“Penso che sia difficilissimo, per esempio, capire il tempo della musica e il tempo per suonarla”.
E come si regola Mario Brunello?
“Voltando le spalle al compositore e prendendo la mia strada. Non penso, comunque, si tratti di un tradimento”.
A quale compositore ha voltato le spalle più decisamente?
“Al Beethoven serio, al quale non credo tanto. Egli era consapevole del suo genio e non disdegnava di prendere un po’ in giro il suo pubblico. I suoi atteggiamenti burberi erano finti, costruiti. Doveva fare il personaggio. In realtà, la sua musica è piena d’ironia”.
Ha definito Vivaldi “un rockettaro” da far impallidire Vasco e Ligabue.
“Confermo. Il musicista veneziano era energetico, voleva che la musica facesse muovere, ballare. E questo senso del ritmo viene di sicuro dalla sua città. I suoi adagi richiamano precisamente il movimento lento del remo in acqua”.
Lei non si ritiene un musicista anticonformista. Ma uno che già dieci anni fa si esibiva in un ciclo di concerti in uno dei templi musicali milanesi come l’Auditorio del San Gottardo, chiamando la rassegna “Avevamo paura che ci portassero ad un concerto…” come può esser definito diversamente?
“Mi piaceva la frase che avevo sentito pronunciare da un ragazzino appena tornato da un concerto. Ribalto il concetto: non sono anticonformista. E’ la musica classica che è tremendamente conformista, che resta inchiodata a regole intoccabili. Dico soltanto che ci sono altre strade per suonare oltre al concerto dal palco”.
Si esibisce con jazzisti del calibro di Paolo Fresu, con artisti come Vinicio Capossela o Moni Ovaia. Ama le contaminazioni artistiche?
“Non mi piace la parola ‘contaminazione’ che ha un’accezione negativa. Pavarotti che canta Sting è una contaminazione. Funziona per lo show, ma non per la musica. La musica è in contatto obbligatorio con le altre arti, è una sua esigenza naturale unirsi alla parola detta bene. Ma questa non è contaminazione. E all’Antiruggine proviamo a dimostrarlo”.
L’ingresso non è libero. Di più: è “responsabile”. Se vuoi dai dieci euro, oppure cinque, ma anche zero.
L’antiruggine lo mette Brunello.
Alberto Laggia