03/01/2011
L’arcivescovo di Milano ne ha“combinata” un’altra delle sue: in questo Natale di sofferenza per tante famiglie colpite dalla crisi, ha messo in vendita i presepi e le icone ricevuti in dono in questi anni per devolvere il ricavato al Fondo famiglia-lavoro della diocesi. È per gesti come questi che Famiglia Cristiana lo ha scelto come “Italiano dell’anno”.
Eminenza, in questo anno pastorale lei ha posto per la sua diocesi san Carlo Borromeo come modello di santità: a quale santità possiamo aspirare oggi?
«San Carlo fu un grande riformatore che, prima di riformare gli altri, decise di riformare sé stesso. Visse in mezzo al “suo” popolo, condividendone le condizioni di vita e i drammi, come durante la peste del 1576. Si spese per annunciare il Vangelo rimanendo dalla parte degli “ultimi”, donando tutto di sé. Visitò la diocesi, riformò la vita del clero, istituì i seminari, strutturò le parrocchie, visse e organizzò la carità... Insomma, divenne santo vivendo bene la sua missione quotidiana di vescovo. Non c’è forse qui un modello forte per tutti noi oggi? Santi non fuori ma dentro il nostro vissuto e dovere quotidiano!».
E qual è la “peste” oggi?
«È il progressivo e veloce “disfacimento”della società, provocato dalla ricerca della comodità e del successo, dai poveri lasciati senza cura, dalla manipolazione dell’opinione pubblica per strapparleil consenso, dal mancato impegno– serio e condiviso – per cercare il bene comune e progettare il futuro».
Alcuni la accusano per i suoi atteggiamentidi solidarietà verso gli immigrati, ma chi la difende dice che lei è animato soltanto dal Vangelo. È così?
«Sì, l’unico criterio su ciò che si deve dire o non dire, fare o non fare da parte del vescovo – e di ogni discepolo del Signore– è il Vangelo e la fedeltà a esso. Fedeli al Vangelo: anche quando è scomodo e impone un prezzo da pagare, anche quando relega a posizioni di minoranza o porta a incomprensioni, derisioni, rifiuti».
Come giudica il modello adottato da Milano sui Rom, impostato sugli sgomberi dei campi?
«Le istituzioni non possono restringersi a un’azione di forza senza alternative e prospettive. Anche nelle comunità cristiane troviamo, purtroppo, forme di individualismo ed egoismo, con la forte tentazione di non voler vedere alcuni poveri. Ma la Chiesa, il volontariato e altre forze positive continuano a rinnovare la loro disponibilità a operare per l’integrazione. Non si distrugga però ogni volta la tela della “accoglienza nella legalità” che pazientemente alcuni tessono. Il richiamo necessario alla legalità e alla sicurezza non basta: occorre riconoscere e rispettare la dignità di ciascuna persona, specie se piccola, nella consapevolezza che il percorso per giungere all’integrazione dei nomadi è complesso, non condiviso da tutti, nemmeno da tutti i Rom».
La politica italiana non pare in buona salute. Di cosa ha bisogno secondo lei il Paese? Cosa pensa dell’invito del Papa a creare una nuova classe di politici cattolici e a dimostrare coerenza tra vita privata e valori professati?
«Sì, non è in buona salute la politica: pare diventata l’arte delle parole, è troppo concentrata su sé stessa. Ciò di cui quotidianamente tratta non è ciò che serve alla gente che deve, ogni giorno, fare i conti con tanti bisogni urgenti. Servono politici con questo preciso obiettivo: non l’interesse proprio o della propria parte, ma il bene di tutti. Un compito ancor più grave per i politici cattolici, che tali sono se si impegnano ogni giorno a scegliere Cristo, a condurre una vita di fede autentica e, di conseguenza, ad assumere decisioni e comportamenti coerenti con il Vangelo: e questo nella vita privata e nel momento in cui si amministra la cosa pubblica. In politica il cristiano deve essere adeguatamente preparato: non ci si improvvisa al servizio degli altri».
La Chiesa, che ha vissuto di recente una pesante crisi a causa della questione della pedofilia, pare in difficoltà anche nella testimonianza della fede e i cattolici sembrano essere oggi una minoranza ormai poco incisiva nella società. Cosa serve di più oggi alla Chiesa?
«Oggi, come sempre, per la Chiesa seguire Cristo è il compito meraviglioso e irrinunciabile che le è affidato: un cammino che in continuità chiama ogni cristiano alla conversione e alla santità. Senza Gesù e la sua croce la Chiesa si ridurrebbe a ente socio-assistenziale, ad agenzia culturale, a lobby politica: non la Sposa che è amata dal suo Signore e che lo riama. Quando però vien meno la fedeltà a Cristo, anche nella Chiesa si sviluppano le logiche mondane del potere, della visibilità, del consenso. Senza Cristo, senza un amore “serio” che ha come regola la dedizione di sé fino alla croce, anche nella Chiesa le relazioni rischiano di degradarsi sino a divenire manipolazione, controllo, possesso, tradimento, abuso. Tutta la forza della testimonianza della Chiesa e il suo vero vanto stanno in Cristo e nel suo amore. Credibile è la Chiesa quando quest’amore lo ripropone con umiltà, fiducia, coraggio e gioia: ogni giorno».
La crisi economica ha colpito e continua a colpire pesantemente l’Italia. Lei è stato il primo nella Chiesa italiana a realizzare un Fondo di solidarietà per aiutare le famiglie: a suo giudizio la Chiesa in Italia e in Europa sta facendo abbastanza? E lo Stato?
«Nel Natale del 2008 mi sono posto una domanda estremamente semplice: io cosa posso fare di fronte a questa crisi? E ho chiesto che ciascun fedele si lasciasse inquietare e convertire da questa stessa domanda. La risposta della gente alla proposta del Fondo famiglia lavoro è straordinaria: sono stati raccolti sinora oltre 10 milioni di euro, ma soprattutto si sono attivate tantissime relazioni di prossimità verso chi è in difficoltà umana, prima che economica. Aiutando chi è nel bisogno testimoniamo la stessa carità di Cristo. Il momento è difficile anche per chi amministra le risorse pubbliche. Ai politici serve però uno sguardo più attento ai bisogni veri delle persone. E questo modo di comprendere la realtà è possibile a tutti, se si conduce un’esistenza all’insegna dell’essenzialità, libera dagli eccessi, animata dalla sobrietà, nelle parole, nelledecisioni, nello stile di vita».
Nel 2012 Milano ospiterà il VII Incontro mondiale delle famiglie. Questo evento ha un’importanza solo ecclesiale o anche sociale?
«Già il titolo scelto da papa Benedetto XVI, La Famiglia: il lavoro e la festa, proietta l’incontro al di fuori dell’ambito strettamente ecclesiale. E nella sua Lettera per l’annuncio dell’evento il Santo Padre scrive che lavoro e festa "sono intimamente collegati con la vita delle famiglie: ne condizionano le scelte, influenzano le relazioni tra i coniugi e tra i genitori e i figli, incidono sul rapporto della famiglia con la società e con la Chiesa". È evidenziato così il rapporto di reciprocità tra società e famiglia. L’appuntamento a Milano ribadirà il fondamento su cui la famiglia si regge: l’amore di Dio che, incarnato, diviene amore per l’altro; ma insieme riproporrà il fondamento della società, la famiglia. Dall’evento del 2012 nasceranno proposte e riflessioni rivolte alla Chiesa e ai credenti, alla politica e alla società».
Coniugi divisi, divorziati, risposati: che volto deve mostrare oggi la Chiesa?
«La fine del matrimonio è un momento drammatico per la vita di tante persone: per i coniugi, per i figli, per chi vuole loro bene. Questa evenienza, già dolorosa di suo, non deve divenire motivo di esclusione (esplicita o implicita) dalla comunità cristiana di chi ha il “cuore ferito”. I separati e divorziati sono amati da Dio e dalla sua Chiesa, appartengono al suo “grembo” materno, non devono essere guardati come necessariamente colpevoli. La comunità cristiana deve sentirsi partecipe delle domande che toccano intimamente questi fratelli e sorelle. Chiedo agli sposi separati di non allontanarsi dalla vita di fede e dalla vita della Chiesa; e alle comunità di essere più attente alla situazione dei separati e dei divorziati, di saperli avvicinare e accompagnare anzitutto con la relazione personale: sempre nel segno della verità e della carità».
Il tema del lavoro è sempre più caldo. Crisi dei rapporti industriali, precarietà, flessibilità: come se ne esce?
«Ci troviamo in una stagione in cui il lavoro industriale ha ceduto il passo al terziario, rarissimo è il posto fisso, la precarietà e la flessibilità sono la regola. Il Welfare – prima garantito dallo Stato e dal tessuto sociale – è in crisi: c’è bisogno allora di maggiore solidarietà perché lo Stato non riesce più ad arrivarea tutti. Serve un nuovo mutualismo adeguato ai tempi. Occorre agire come comunità cristiana ma anche come singoli fedeli, come aziende e come lavoratori, come istituzioni e come singoli cittadini: insieme, senza attendere momenti migliori, senza immaginare che spetti ad altri fare il primo passo».
A rischiare per la crisi occupazionale sono soprattutto i giovani: quali interventi auspica in favore delle nuove generazioni? E a livello sociale e culturale, quali sono le emergenze, anche alla luce del Piano decennale della Cei sull’emergenza educativa?
«Investiamo veramente e seriamente sui giovani! Preoccupiamoci della loro educazione, della crescita umana, spirituale, culturale, prima che della loro preparazione tecnica al lavoro. Affrontiamo le questioni decisive del senso e della responsabilità. Diamo alla famiglia il sostegno necessario perché possa continuare a svolgere verso i giovani la sua insostituibile missione educativa. Urge riconoscere, mettere in rete e sostenere l’azione di quanti già operano con efficacia per i giovani: scuole, oratori, centri sportivi, associazioni culturali e del tempo libero. Solo su questa “base”umana, culturale e spirituale, si potrà poi continuare a investire per formare il “lavoratore”. E al tempo stesso pretendere regole nuove che armonizzino le esigenze del mercato del lavoro con quelle dei giovani. Come potrà un giovane decidere del futuro se gli si offrono solo contratti da rinnovare – eventualmente – ogni sei mesi?».
La riforma del ministro dell’Istruzione Gelmini ha scatenato la rivolta degli studenti. Secondo lei oggi in Italia si investe abbastanza sulla scuola pubblica? E come giudica la situazione in cui si trovano gli istituti privati, in particolare quelli cattolici?
«Tutta la scuola, sia pubblica sia paritaria, va sostenuta. Un Paese che non investe adeguatamente nei giovani sarà un Paese senza un’anima e senza futuro. La scuola, insieme alle altre agenzie educative, è al servizio della società: e questa deve riconoscerne il posto strategico. La scuola cattolica ha poi un compito in più: far comprendere l’originalità e l’incisività del Vangelo sul vissuto umano. Anche gli insegnanti cristiani impegnati nella scuola pubblica devono sentire loro affidato questo mandato, vorrei dire questo “ministero”. Quanto alle manifestazioni di piazza di questi giorni, vi assisto con dolore e mi domando: perché i giovani manifestano così? Perché non hanno altro modo per esprimersi e per farsi ascoltare? È importante – proprio per dare autorevolezzaalla loro voce – che i giovani allontanino sempre ogni forma di violenza. È compito degli adulti offrirsi al dialogo e prevenire il disagio ancor prima che se ne manifestino i sintomi».
Eminenza, quale bilancio si sente di trarre di questi anni di ministero pastorale a Milano?
«Non spetta a me un simile compito. Io mi sento oggetto di una grazia particolare: essere cristiano tra tanti cristiani, cercare e seguire il Signore insieme a una moltitudine di persone innamorate di Lui. Più che l’urgenza di un bilancio, sento il bisogno di pregare affinché si conservi e aumenti la mia fede, insieme a quella di quanti sono affidati al mio ministero di vescovo. Chiedo che sia una fede vera e autentica: un rapporto vivo, personale con il Signore Gesù. Chiedo che la giornata di tutti conosca un momento d’incontro e di dialogo con Dio. Chiedo che tutti si ispirino sempre al Vangelo e alla sua novità creatricedi vero, di bello, di giusto e di buono,e non cedano all’opinione comune succube dell’egoismo, del consumismo, dell’individualismo, del potere, di unalibertà falsa e prepotente».
Chen cosa pensa del riconoscimento di“Italiano dell’anno” che le è stato attribuito da Famiglia Cristiana?
«Mi meraviglio non poco. Famiglia Cristiana doveva attribuirlo ad altri. Prendo comunque, con tanta semplicità, questo riconoscimento come invito, anzi come impegno a diventare sempre più discepolo del Signore».
Roberto Parmeggiani