10/12/2010
Il giornalista Gian Paolo Ormezzano ragazzo, agli esordi.
Ci sono persone che si leggono con la
loro voce. Gian Paolo Ormezzano è
una di queste, parla e scrive con la
medesima fluenza, torrentizia e insieme
controllata. Parla e scrive come se potesse
non fermarsi mai, ma se gli chiedi otto-righeotto
le manda precise, anzi lasciandone mezza
vuota per la firma. E se gli accendi una telecamera
il fiume in piena, obbediente, si incanala
nel percorso assegnato dagli spazi imposti
dalle regole del giornalismo “anelastico”
come il piombo del suo antico Tuttosport.
Con il computer ha familiarizzato a un’età
che definisce “spessa”. Ha un Pc che guarda,
senza dirglielo e probabilmente ricambiato,
un po’ in cagnesco. Fa anche il blogger all’occorrenza,
ma non ha perso il vizio di contare
le battute degli articoli. Forse, questo suo rispetto
per lo spazio assegnato è il suo modo
subconscio di dichiarare fedeltà alla carta, in
un tempo in cui i giornali migrano in altri
supporti di vetro e byte, che sanno fare tutto
quello che fanno i giornali, ma non impareranno
mai a incartare sardine il giorno dopo.
A 75 anni "Gpo" ha accettato di raccontare in
un libro la sua avventura di sport e parole.
Facile indovinare lo spirito della copertina
granata, omaggio al Torino, più che una
squadra un atto di fede...
«Il grande Torino è il mio rimpianto di
giornalista. L’ho visto da bambino, quando
già un po’ sognavo questo mestiere, e non
mi ha aspettato. Forse mi è stato risparmiato
il racconto del suo tramonto».
Non dite a mia mamma che faccio il giornalista
sportivo... Quando è stato accettato
in casa questo mestiere degenerato?
«Quando ho avuto la mutua nel 1960. A Torino
c’era il mito della Malf, Mutua aziendale
lavoratori Fiat, massima aspirazione di un torinese
non proprietario della Fiat».
L’aggettivo sportivo era un’aggravante?
«Credo che mia madre abbia patito lo
sport a causa di mio padre, fanatico fino al
mal di testa. E poi per il cortile vicino a casa:
l’orda dei miei amici infangati dal pallone
che invadevano il bagno era tortura per lei».
Leggendo sembra che ti abbia divertito di
più la seconda parte del libro, dove racconti
te stesso attraverso gli sportivi. È vero?
«Sì, perché sono rapporti speciali, sono i
miei campioni dentro un modo di fare giornalismo
irripetibile per voi che ve la vedete
con uffici stampa e procuratori. Il rapporto
con Boniperti, con Gimondi e la moglie: ho
avuto una simbiosi vera con questa gente».
In compenso, sulle note spese fai fare figuracce
ai giornalisti della tua generazione...
«Ma ammetto che non ho prime pietre da
scagliare, ci sono dentro, con due vantaggi:
non mi sono mai abboffato di proposito perché
lo faccio di regola e poi, se mangiando impoverivo
Gianni Agnelli, magari faceva meno
campagna acquisti per la nemica Juve».
Che cosa cerchi leggendo di sport?
«Ho una malattia professionale: cerco l’attacco,
la chiusura, le piccole magie tra le parole,
un gol descritto in un certo modo. Una
lettura estetica, sempre più rara».
Com’è il giornale dei tuoi sogni?
«Un giornale che non insegue la semplicità
fino al limite della miseria, che non teme
di insegnare scrivendo di sport una parola
nuova a chi legge. Perché chi sa cento parole
avrà sempre ragione di chi ne sa dieci e io sono
perché tutti ne imparino. Sogno un giornale
sportivo tutto di riflessioni, che se ne freghi
della notizia e del mercato, ben scritto,
con un filo di umorismo. Lo vorrei perché leggevo
Vladimiro Caminiti per come sapeva descrivere
il cielo. E lo leggerei ancora anche se
so già che esiste il cielo e se l’ho visto in Tv».
Ami il Torino, ma i tuoi sport sono altri...
«Sì, il calcio è un gioco fatto con i piedi, lo
sport è fatica, bava alla bocca. Vorrei saper
raccontare le corse lunghe».
Scegliti il tuo campione...
«Coppi, ma non ne ebbi il tempo, mi spedirono
a Tortona perché non c’era nessun altro
quando arrivò la notizia che era grave. Dico
Platini, perché abbiamo parlato per cinque
anni e mai di calcio, per lo humor suo e mio,
per l’amore che porto alla Francia».
Che cosa ti fa dire: «So questo ma non lo
scrivo per non tradire una persona»?
«Un po’ di educazione cattolica, un po’ di
educazione al liceo Cavour, un po’ di educazione.
La paura di fare del male agli onesti e
del bene ai gaglioffi».
Il tuo servizio dei sogni, oggi?
«Una follia, seguire in moto il Tour de France
e affogarmi nella Francia di provincia».
Racconti ancora sport, ma i “tuoi” campioni
non superano gli anni ’80, perché?
«Perché amo di più quelli del mio tempo e
poi perché da Monaco 1972 l’accessibilità ai
personaggi dello sport è tanto diminuita».
Un incontro di cui vai fiero?
«La confidenza di Gimondi, che mi regalò
la penultima notte del suo Tour e poi mi ospitò
nella stanza di un gregario scusandosene
pure. E poi Eddy Merckx, seguito per tutta la
carriera. Mi pesa, però, l’averlo tradito una
volta per leggerezza: scrissi senza dirglielo
una cosa personale. Non dimenticherò la delusione
nel suo sguardo».
Elisa Chiari